familiares: sacramento dell'amore di dio
Familiares (uomini e donne)
Ef 2,19-22
19Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete
concittadini dei santi e familiari di Dio (οὖν οὐκέτι ἐστὲ ξένοι καὶ πάροικοι ἀλλὰ
ἐστὲ συμπολῖται τῶν ἁγίων καὶ οἰκεῖοι τοῦ θεοῦ), 20edificati sopra il
fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso
Cristo Gesù. 21In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per
essere tempio santo nel Signore; 22in lui anche voi venite
edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito.
Il vostro stato di familiares è definito anzitutto in
rapporto alla Compagnia missionaria e alla sua vocazione.
Ma non è un aggettivo, è un sostantivo radicato nel
battesimo, che vi costituisce «concittadini dei santi» e «familiari di Dio».
In rapporto alla Chiesa siamo «concittadini dei santi»,
abitatori della medesima città dove abitano i “santi”, cioè i figli di Dio.
Il termine “santo”, con la sua connotazione di separato,
indica una condizione di privilegio, di elezione. L’attributo di “concittadini”
indica un’identità condivisa. Con i santi condividiamo la città e condividiamo
la città da santi.
Se per i religiosi una storia millenaria avvalla il
sospetto che nella consacrazione si andasse cercando una “fuga mundi”, i
Familiares sono immuni da questo sospetto fin dalla fondazione e dalla
definizione statutaria.
Nella città degli uomini «voi non siete più stranieri né
ospiti (ξένοι καὶ πάροικοι)»; non siete “parrocchiani”, ma concittadini.
Non siete chiamati a costruire un’altra città, ma ad
abitare questa città insieme con tutti gli altri. La chiamata non vi porta
fuori dalla città, ma vi spinge a «scrivere la legge divina nella vita della
città terrena» (GS 43, citato da S 18).
È qui la bellezza e la grandezza della vostra chiamata,
consapevoli che quanto vivete da cittadini non vi sottrae al Vangelo, anzi vi
rende artefici di quella edificazione che ha la pietra angolare in Cristo Gesù.
Quando collaborate a superare le ingiustizie, a
riconciliare le divisioni, a ridare dignità di cittadini a chi è emarginato,
anche se colpevole, voi edificate quella città costruita sul fondamento del
Vangelo annunciato e reso concreto (apostoli) nella quale Dio stesso vuole
abitare, vuole dare casa ai suoi “familiares” (οἰκεῖοι).
Lc 8,19-21
19 E
andarono da lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa
della folla. 20 Gli
fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». 21Ma egli rispose
loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di
Dio e la mettono in pratica».
A costituirvi
familiares è dunque la chiamata – che è di tutti i credenti – ad ascoltare e mettere in pratica la Parola.
I familiari di
Gesù vengono per ricondurlo a sé, per “sequestrarlo”, per riportarlo nell’alveo
dei rapporti di parentela di sangue. C’era anche Maria tra quelle persone.
Immagino il conflitto che stava vivendo, lei che aveva già attraversato il dubbio («come avverrà questo?» Lc 1,34) ma si era
consegnata in quell’ecce ancilla nel quale riconosciamo la nostra adesione di
fede.
Come accade
altre volte nel Vangelo, Maria viene ricondotta al nudo sì della fede (cf.
Cana, la croce).
I familiari di
Gesù secondo la carne vogliono “vederlo” e per raggiungere questo obiettivo la
folla è loro di impedimento. Gesù manda a dire loro che suoi familiares sono
coloro che «“ascoltano” la Parola di Dio e la mettono in pratica».
Ai familiares
non è data la visione, ma l’ascolto. Condividono con
gli altri “concittadini” il desiderio di vedere, di toccare con mano, di tirare una riga e stilare bilanci, ma possono
solo proseguire ascoltando e mettendo in pratica. Diventano loro il Vangelo
visibile. Sono loro la città posta sul monte, la luce
accesa nella stanza che altro non può fare se non emanare luce, sale che non
può essere senza sapore, lievito che altro non sa fare se non fermentare la
pasta.
«Signore,
quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti
abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti
abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti
abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?» (cf. Mt 25). Quando
mai ti abbiamo “visto”? Però abbiamo messo in pratica
la tua parola e così hai potuto farti prossimo (cf. buon samaritano Lc
10,29-37).
La vita quotidiana: parola e sacramento
Nelle risonanze delle vostre schede, una delle insistenze
più ripetute e più concordi è quella riferita alla spiritualità della vita
quotidiana. È nella consapevolezza comune dei Familiares di essere chiamati non
tanto a compiere opere particolari, ma piuttosto a vivere ogni azione animati
da quello spirito che si vorrebbe lo stesso che animava il Cuore di Cristo.
La celebrazione della Parola e del sacramento è un momento
definito delle nostre giornate, un momento elettivo, “santo” (cioè distinto).
Ma è vuoto se non porta con sé la materia della vita quotidiana.
È la vita quotidiana che mette in pratica la Parola (e
dunque la fa vivere) e dà materia al sacramento.
Gal 2,19b-20 (il versetto biblico più citato da p. Dehon): «Sono
stato crocifisso con Cristo, 20e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E
questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che
mi ha amato e ha consegnato se stesso per me».
La vita quotidiana non è ciò che ci sottrae alla vita
della grazia, ma anzi ciò che la fa scorrere; non ciò che ci sottrae
all’intimità con Dio, ma ciò che ci rende familiares perché mettiamo in pratica
la Parola ascoltata.
Cf. S 44: «L’amore vissuto al punto di divenire “comunione”
con Dio e con i fratelli».
La Parola non ci è data per battere l’aria, ma perché,
come la pioggia e la neve, fecondi la terra e la faccia germogliare (cf. Is
55,10-11) perché porti frutto.
Una Parola che, nata dal Verbo, ha bisogno sempre di
incarnarsi. Nell’annuncio e nella carità.
Quando le nostre parole sono animate e suggerite dallo
Spirito che abita in noi, e dunque sono carità, danno carne al Verbo.
E il Verbo non ha altra possibilità se non le nostre
parole per farsi uomo oggi.
Così è per i nostri gesti. Quando sono animati dallo
Spirito che abita in noi, e dunque sono carità, diventano sacramento, gesto
efficace che trasmette la grazia.
La nostra vita si muove lungo il dinamismo di questo
pendolo: i gesti particolari del sacramento e la sacramentalità dei gesti
ordinari. Celebriamo ciò che viviamo e viviamo ciò che celebriamo.
Non andiamo in cerca di cose grandi superiori alle nostre
forze, né di gesti spettacolari che attirano l’attenzione più su di noi che
sulla grazia che in essi scorre.
Il messianismo di Gesù.
Gesù, nel deserto, mentre si interrogava su quale fosse la
vocazione messianica alla quale era chiamato, è stato tentato dal prodigioso,
dallo spettacolare, dal dominio. Ma ha respinto questi progetti messianici come
diabolici e ha scelto la via della semplicità, dell’umiltà, addirittura della
croce.
Anche noi partecipiamo oggi sacramentalmente a ciò che salva il mondo non attraverso la
grandiosità delle nostre azioni, ma attraverso la piccolezza scelta per fede,
perché la nostra debolezza sia sacramento della grazia di Dio.
I familiares non fanno cose straordinarie. Forse anche
quelle. Ma soprattutto vivono le cose ordinarissime con la fede nella
straordinarietà della grazia di Dio che si fa carne, si fa sacramento, si fa
pane quotidiano nella quotidianità del pane che prepariamo e condividiamo.
Non diamo al mondo tesori d’oriente, ma semplicemente
pane. Quel pane quotidiano è il sacramento nel quale Dio stesso si fa nostro
familiaris alle nostre mense.
Siamo invitati a superare anche la tentazione speculare,
di non volere la nostra messianicità, di dubitarne, di voler essere lasciati in
pace nel nostro piccolo mondo senza il sorprendente della grazia.
È l’“ultima tentazione” di ogni cristo. Perché la
quotidianità porta con sé sempre anche la croce («Se uno vuol venire dietro a
me ... prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» Lc 9,23) (cf. S 14). Aver
paura del talento che ci è stato consegnato e seppellirlo nell’illusione di
conservarlo. Mentre invece, nella logica sacramentale del Vangelo, ciò che non
si dona si perde. E chi non ha si trova anche senza quello che ha.
È il carisma del sacerdozio, dato a tutti nel battesimo.
I sacerdoti ordinati sono quelli dediti a “fare le cose
del sacro”. Il sacerdozio del battesimo è quello che ci abilita a “fare sacre
tutte le cose”, a “con-sacrare” ogni azione rendendola un “sacrificio”
(sacrum-facere) che non è offerta di cose o animali, ma offerta di se stessi.
È lo Spirito donatoci che trasforma ogni cosa in
sacrificio; è la carità, da noi vissuta come “spirito di oblazione”, che fa di
noi, anzitutto, e poi delle nostre azioni un’“offerta gradita a Dio”.
Cf. S 42
Col 3,17
17E qualunque cosa facciate, in parole e in opere,
tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio
Padre.
Come credenti non compiamo opere straordinarie, ma
«qualunque cosa», anche la più ordinaria facciamo in modo che «avvenga nel nome
del Signore Gesù».
L’inno all’amore di 1Cor 13: potrei anche compiere le
opere più straordinarie, ma se non avessi l’amore sarei un nulla.
Addirittura siamo chiamati a fare in modo che le cose «avvengano nel nome del Signore». Siamo
chiamati a dare un senso all’intera storia, perché tutto sia orientato alla
carità.
«Nel nome del
Signore Gesù» suggerisce almeno tre dinamiche:
» tutto avvenga per grazia di Gesù, tutto si
compia in forza della sua grazia. Lasciamo cadere la presunzione di compiere
qualcosa in forza delle nostre capacità, e nello stesso tempo non cedere alla
frustrazione della debolezza ripetutamente sperimentata, perché è nella
debolezza che si manifesta la grazia di Gesù Cristo.
» tutto si compia per amore di Gesù. Non facciamo
le cose per dovere, ma per amore. E non per un amore generico e astratto, ma
per amore di Qualcuno, di lui.
» tutto avvenga in nome suo, per conto suo. La
missione in un certo senso ci espropria del merito, perché tutto ciò che
facciamo lo facciamo “in nome suo”, “per conto suo”. Questo ci libera anche
dalla necessità di pesare il raccolto.
Lo Statuto 15 e 21 (dove cita Col 3,17) incammina verso
questo orizzonte.
Ef 5,18b-20
Siate ricolmi dello Spirito, 19intrattenendovi fra voi con
salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro
cuore, 20rendendo
continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro
Gesù Cristo.
Ci è stato dato lo Spirito, che colma della sua grazia e
ci suggerisce il ringraziamento per ogni cosa e in ogni caso a Dio Padre.
Rispetto a Col 3,17, in questa esortazione di Paolo (?) possiamo leggere un
significato più “passivo”, accogliente:
» Rendere grazie perché ogni cosa viene da Dio e
noi possiamo riconoscere in ogni cosa e in ogni avvenimento un risvolto provvidenziale:
«Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28).
» Rendere grazie perché ogni cosa e ogni
avvenimento pos.sono portarci a vivere una comunione più profonda con lui.
Anche i sassi possono diventare gradini. Non esiste sentiero che non possa
portare a Dio. Perché la sua volontà è proprio questa: che io possa trovare
comunione in lui.
» Rendere grazie perché tutto ci parla di Dio. In
ogni cosa e in ogni situazione possiamo trovare un motivo per ringraziare Dio e
anche i fratelli e sorelle che sono la “carne” attraverso la quale Dio ci
raggiunge. E rendere grazie perché fa di noi i sacramenti della sua carità.
Tutto può diventare motivo di ringraziamento, motivo di
“eucaristia”. La nostra vita può essere un’eucaristia continua, nel doppio
significato: tutto possiamo offrire a Dio e possiamo ringraziare di tutto
perché ci è offerto da Dio.
Anche la “croce” diventa motivo di “eucaristia”, perché,
«nel nome di Gesù», la croce non è più senza senso, ma «anche la notte del
dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto»
(Prefazio VIII).
Il nostro ringraziamento non è una generica esclamazione
di meraviglia per qualcosa di bello, come potrebbe essere il fiotto di emozione
che si prova dinanzi a un bel paesaggio, ma è sempre un ringraziamento
personale, rivolto a un nome: “nel nome di Gesù”.
1Cor 10,31
31Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che
facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.
Cf. Statuto 9a
«Alla scuola del Cuore di Gesù impariamo anzitutto a
realizzare la “comunione” con Dio mediante l’impegno ad accogliere e coltivare
la vita di grazie e l’attenzione a tutte le circostanze per testimoniarla ai
fratelli».
L’espressione che utilizza Paolo scrivendo alla Chiesa di
Corinto fa riferimento – lo si desume dal contesto – alla carne immolata agli
idoli. Conosciamo il dilemma che ha impegnato le prime comunità e la coscienza
dei primi cristiani.
La carità e la gloria di Dio diventano la misura del bene
e il criterio di discernimento di ogni nostra azione («sia che facciate
qualunque altra cosa»).
Quando lo Statuto invita a realizzare la comunione con Dio
non fa altri che riprendere con altre parole l’invito paolino: «fate tutto per
la gloria di Dio». La gloria di Dio non è un attributo che gli viene
riconosciuto da fuori e che è tanto più grande quanto più si eleva sopra di
noi. Al contrario, la gloria di Dio, ciò di cui Dio si gloria, si stima, ciò
che vuole per sé è la comunione con noi. Quella di cui parla lo Statuto.
Ad maiorem Dei
gloriam è il motto dei gesuiti. Per noi della famiglia dehoniana mi piace
pensare, nello spirito della Evangelii gaudium, che il motto possa essere Ad maius Dei gaudium. È lui che nel
Salmo (133[132]) rivela ove trovi gioia: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i
fratelli vivano insieme!».
Col 3,16
16La parola di Cristo abiti tra voi nella sua
ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni
e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori.
Facciamo un passo indietro nella citazione di Paolo, ma
probabilmente è un passo avanti nel nostro discorso: lasciarsi abitare dalla
ricchezza della parola di Cristo. Potremmo azzardare: lasciarsi abitare da
quella parola che è Cristo.
Dalla ricchezza della Parola attingiamo sapienza, grazie alla quale è possibile
il discernimento personale e l’istruzione fraterna.
Dalla stessa Parola attingiamo anche la grazia che trasforma la nostra vita in
un canto a Dio. La traduzione italiana dice «con gratitudine», ed è un significato
alto, ma il testo sia greco sia latino dice «nella grazia». La grazia di Dio fa
sì che le nostre azioni («sia che
mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa») siano come
note di un canto, con il quale rallegriamo Dio. Che accetta di buon grado anche
le nostre stonature...
La preghiera
Ef 6,18
18In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e
di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e
supplica per tutti i santi.
Nelle risonanze delle vostre schede, l’altra convergenza è
attorno alla centralità della preghiera. Intesa in maniera privilegiata come eucaristia,
adorazione, meditazione della Parola. Evidentemente in ossequio allo Statuto
(cf. n. 23).
Nella citazione di Paolo agli efesini – nella sua
traduzione italiana – ricorre ben tre volte l’aggettivo “ogni” (anche in latino
e in greco il corrispondente). L’immagine di una preghiera diffusa, che pervade
“ogni” momento in “ogni” forma.
Il n. 22 dello Statuto sembrerebbe dare alla preghiera una
connotazione strumentale («Un aiuto sicuramente efficace»). Ma continuando
nella lettura si trova il significato profondo espresso dallo Statuto:
«Gradualmente essa ci addentra nelle disposizioni e nei sentimenti del Cuore di
Gesù e favorisce un’operosa “comunione” con lui, in docilità allo Spirito
Santo».
In ogni occasione (ἐν παντὶ καιρῷ)
Lo Statuto, al n. 20, concludendo sulla “missione” dice
che «La disposizione con cui vivremo la nostra missione sarà di continua
comunione con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo, nella grazia dello
Spirito Santi, con tutta la Chiesa,le sorelle e i fratelli di ideale».
Ogni evento, ogni momento possiamo trasformarlo in
occasione di preghiera, cioè di comunione cercata con Dio.
Paolo usa il termine greco “kairos” (kairoς), che ben conosciamo per il suo
significato pregnante. Kairoς è
l’occasione puntuale nella quale si manifesta la grazia di Dio. Nella vita del
cristiano ogni occasione può diventare tempo di grazia se lasciamo che sia lo
Spirito a guidarci.
Tutto il nostro tempo, vissuto come offerta – cosa è lo
“spirito di orazione” se non questo? –, diventa tempo di grazia.
Con ogni sorta di preghiere e suppliche
Si può pensare che Paolo abbia usato il doppio termine
come rafforzativo. Il primo termine (proseuché – proseuch)
fa riferimento alla preghiera nel suo significato più ampio, che va dalla lode
all’invocazione all’intercessione...
Il secondo termine (deésis – dehsiV) intende un significato particolarmente rafforzativo. È
una forma di preghiera solitamente associata al digiuno, espressione di un
momento di particolare travaglio o necessità.
L’invito di Paolo è a lasciare che la preghiera dia parole
e sentimenti a ogni momento della nostra vita, da quello ordinario a quello di
maggiore angustia o difficoltà
Sono poche le preghiere “particolari” dei Familiares.
Potrebbero anche essere nessuna. Perché ciò che dà sapore alla nostra preghiera
è che diventi un atteggiamento dello Spirito, una sorta di “indole”, quasi un
tratto del nostro carattere che si palesa in ogni cosa che facciamo.
Vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi
Se la preghiera si dilata ad ogni momento della nostra
giornata e gioca tutti i suoi registri siamo approdati alla “preghiera
incessante”.
Non vuol dire recitare incessantemente orazioni. Sarebbe
impossibile. Lodevole la forma dell’esicasmo. Ma ancor più apprezzabile e alla
portata di tutti una preghiera incessante perché portata ad abitare le tante
circostanze («in ogni circostanza»).
Non ci sono per questa preghiera forme precostituite, ma
ognuno è invitato a costruire con pazienza umile o a trovare la propria forma
di una preghiera “perseverante”. Ci aiuta, anzi forse ne è la meta,
l’esperienza di una comunione profonda con Dio, che sentiamo al fondo delle
nostre giornate, sia che vegliamo sia che dormiamo, sia che mangiamo sia che
beviamo, sia che agiamo sia che meditiamo.
La condizione di familiari di Dio, che resta vera anche
quando non ci pensiamo. Se sono figlio, lo sono sempre.
La preghiera diventa questa sorgente sotterranea che
alimenta i nostri pensieri e le nostre azioni. Fino a contrassegnare perfino le
nostre imprecazioni.
[Aneddoto dell’uomo e la scodella]
Nello spirito
Quello della “preghiera nello spirito / nello Spirito” è
un capitolo molto ampio, caro particolarmente a Giovanni, nel suo Vangelo e
nelle sue lettere.
Gv 4,23 «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e
verità». Può essere inteso in un doppio senso: adorare nello spirito può
significare una preghiera fatta di atteggiamenti dello spirito più che di
pratiche e formule (come del resto sottolineano i vostri riscontri alla IV
Scheda sulle “pratiche”).
Ma soprattutto significa che la preghiera “cristiana” è
preghiera “nello Spirito”. In lui. E lui in me. È lo Spirito che prega
in me, “con gemiti inesprimibili.
Lo Spirito viene in aiuto alla
nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo
Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili (Rm 8,26).
Penso sia esperienza comune quella di scoprirsi incapaci
di preghiera, o di qualcosa che ci strugge dentro e ci mette in conflitto tanto
che nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare.
La preghiera dell’umile accetta di sapersi inadeguata e
crede di essere ascoltata non perché ben formulata, ma perché accetta che anche
i gemiti inesprimibili siano abitati e mossi dallo Spirito.
Lo Spirito che veste anche i nostri gemiti inesprimibili per farne preghiera. E tutto
può diventare preghiera, anche ciò che è inesprimibile se ci affidiamo allo
Spirito, che il Padre desidera donarci e Gesù ha promesso.
Gesù ci ha insegnato a chiedere anzitutto lo Spirito (cf.
Lc 11,13 a “commento” del Padre nostro), perché grazie allo Spirito tutto in
noi può diventare preghiera.
Lo Spirito «viene in aiuto» alla nostra debolezza, quando
ci sembra di non farcela, nemmeno a pregare. Il verbo che usa Paolo (sunantilambanw) ricorre soltanto un’altra
volta nel NT, quando Marta chiede a Gesù che dica alla sorella Maria di venirle
in aiuto (cf. Lc 10,40).
È un significato così consolante! Quando ci diamo da fare,
ma ci sembra di non venirne a capo; quando ci agitiamo per molte cose e ci
sembra di perdere tempo; quando moltiplichiamo gli sforzi, ma i risultati non
si vedono: lo Spirito “viene in aiuto” alla nostra debolezza.
«La preghiera cresce e si matura – fino a essere la
sostanza più rimarchevole della santità – in proporzione del nostro “sapere”
che la preghiera è un lasciarsi creare figli da Dio.
Questo convincimento, se è matura, una volta che si
sia tramutato in modo di vedere abituale in noi, perdura e si afferma, a
dispetto delle distrazioni, o degli impacci ad esprimersi, e nelle cosiddette
aridità, che sono poi solo espressione della nostra impotenza a trattare Dio
come una «cosa» da manipolare. Uno è preghiera, più che non dica le preghiere.
Lo si capisce, guardando il suo essere lì a ricevere, in attesa della chiamata,
anche se, in anticamera, uno può tentare di leggere una rivista del mucchio di
stampa sul tavolino, in realtà lui non perde mai la percezione di star aspettando; non dirà mai
che lui, per prima cosa, sta leggendo. Legge per aspettare, dunque aspetta.
Fuori di metafora: lui prega, e prega tanto quanto è maturata e profonda in lui
la convenzione che Dio è lì a quel modo, e che lui, l’orante, è il privilegiato
che Dio sta chiamando, perché ha qualcosa da dire e da fare a suo favore.
Magnifica la preghiera di quiete, in cui non si ha
nemmeno la forza di trascorrere sui pensieri, perché centrati e affascinati
dalla certezza della Presenza. Ma è preghiera di quiete, non meno magnifica,
anche se povera e tutt’altro che concentrata su un particolare edificante,
quella preghiera che si esprime nella pacata e non concentratissima persuasione
di essere, senza bisogno di credere che, per essere, occorra pensarci; perché
non è al pensarci che noi siamo disponibili a Dio; lo siamo nient’altro che per
il fatto di esserlo davvero, non sapendo fare altro» (Enzo Franchini).
La comunione
Una delle due «disposizioni» nelle quali si concretizzano
«le esigenze dell’imitazione del Cuore di Gesù», secondo Statuto 7, è «l’amore
che si fa “comunione”, che ci fonde nell’unità».
Abbiamo speso parole per dire della comunione con Dio, una
comunione sostanziale, perseverante, frutto e radice della nostra preghiera e
del nostro agire.
Nell’esperienza della comunione non può essere disgiunta
dalla comunione tra “fratelli e sorelle” (familiares).
«Fare “comunione” con i fratelli significa “perdersi” per
ritrovarsi nel Cuore di Cristo e farsi con lui ascolto, disponibilità,
dolcezza, rispetto, accoglienza, forza unitiva ... con tutti» (Statuto 11).
Anzitutto il testo
dell’evangelista Giovanni (cap. 17), nella solenne e drammatica cornice del
Getsemani. Gesù sta per consegnarsi alla volontà del Padre, ma prima si rivolge
dicendo al Padre che «vuole» alcune cose per i suoi.
20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che
crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una
sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché
il mondo creda che tu mi hai mandato.
22E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro,
perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. 23Io in
loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi
hai mandato e che li hai amati come hai amato me.
24Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi
con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai
dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.
Il rischio è quello di fermarsi a una lettura ecumenica
della preghiera di Gesù o, appena più su, a una lettura etica. Come se Gesù
pregasse perché «si vada d’accordo», non si litighi, si faccia i buoni.
E invece la lettura più adeguata è teologica: non è solo
il condominio, o la famiglia, o la Chiesa ad andarci di mezzo. In gioco c’è Dio
stesso, perché lui stesso si è messo in gioco nella nostra unità. Tanto da
considerarsi perso, annichilito se la sua unità non potesse rispecchiarsi –
ancorché in maniera confusa, come in uno specchio appunto – nella nostra.
L’Unità trinitaria, anche a voler parlare di lui solo
dogmaticamente, è l’intima essenza di Dio. Tanto che il suo antagonista – al
quale è ancora possibile agire in questo mondo – è chiamato «dià-bolon», colui
che è diviso e divide.
E la sua azione nel mondo per contrastare il Regno non è
sollecitare i nostri appetiti più pruriginosi, ma istigarci alla divisione,
alla competizione, alla rivalità fra noi, perché sa che là dove si rompe la
comunione fa gli uomini si minaccia Dio stesso nella sua unità, in ciò che lui
intimamente è.
I colpi sono mortali – quei peccati sono mortali. (Si
potrà eventualmente comprendere da qui perché una destinazione impropria della
ricchezza sessuale sia sempre stata vista come una minaccia grave, mortale in
alcuni casi: perché ciò che contiene la vocazione alla comunione viene speso
per isolare, dominare o dividere).
Costruire comunione fra di noi è dar modo a Dio di vivere.
Anche la comunione, come la preghiera, è realtà
quotidiana, che se non è fatta della nostra carne – debole eppure abitata da
Dio – non è “cristiana”.
Gen 2,18.21-25: 18E il Signore Dio disse: «Non è bene che
l’uomo sia solo ». 21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore
sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne
al suo posto. 22Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta
all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse:
«Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà
donna, perché dall’uomo è stata tolta». 24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. 25Ora tutti e due
erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.26
I due saranno un’unica carne. Il Sint unum è all’origine
della Chiesa, ma è anche, anche perché, all’origine dell’umanità.
Il giudizio di Dio sul suo creato è duplice: «Non è bene
che l’uomo sia solo (monon)», e il
rimedio che salva è che «i due siano un’unica carne», che siano uno.
Dio ha plasmato per Adamo, in Eva, «un aiuto che gli corrisponda».
Così come Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza.
Il Sint unum è ciò che porta, custodisce, trasmette la
vita nel mondo. Dio si è dato nella coppia umana un aiuto nella sua opera di
creatore.
Ancora una volta non è un comando dato da Dio, dato da chi
fa le regole ma non gioca.
Dio, nell’unità fra l’uomo e la donna, si gioca non solo
la sua immagine, ma se stesso. La sua carne...
Perché Cristo è osso delle nostre ossa, carne della nostra
carne. Ha preso carne da Maria, nuova Eva, e noi siamo nati dal suo costato,
carne della sua carne.
Quella sponsale non è soltanto un’immagine affascinante, è
realtà costosa per Dio, e promettente per noi.
Cristo ha lasciato suo Padre e si è unito per sempre a
noi, sua Chiesa, diventando con noi una sola carne. Ora la sua stessa esistenza
è legata alla nostra. La sua felicità è ancorata alla nostra.
«Non è lecito all’uomo separare ciò che Dio ha unito». È
di più del divieto opposto al divorzio, molto di più. È la linea di separazione
tra il bene e il male.
Dovrebbe esserci chiaro che una dinamica contraria a
quella del Sint unum è diabolica, disfa la creazione.
Il Sint unum, letto nel giardino dell’Eden, è il progetto
di dare carne a Dio. Dargli un aiuto che “gli corrisponda”, perché non è bene
che Dio sia solo.
Il Sint unum è dunque molto di più di una pia esortazione
spirituale o di un invito ecumenico.
Non è un semplice consiglio dato da uno esterno alle
nostre vicende, nel nostro interesse.
È una vocazione alla comunione con Dio, è anzi una
invocazione scaturita dalla bocca del Creatore mentre chiamava all’esistenza i
suoi figli; scaturita dal cuore di quel Figlio di Dio che stava per unirsi ai
suoi fratelli, su quel letto di croce, per essere con loro una sola carne,
nell’esperienza più carnale di tutte: la morte.
Nella teologia (discorso su Dio) del matrimonio, si è
sempre individuato nell’intimità degli sposi – che è l’esperienza più eloquente
dell’abbraccio divino per il quale noi siamo una cosa sola, una carne sola con
lui – una finalità unitiva e una finalità procreativa.
Analogamente, anche il Sint unum, nella sua dimensione
sponsale, genera (nel senso che prende vita qualcosa che altrimenti non c’era)
la comunione tra noi, membri dell’unica carne di Dio e, in questa comunione, ci
rende capaci di «dare la vita».
Poiché non c’è amore più grande di questo: dare la vita
per i propri fratelli.
Sono i gesti della comunione fraterna (il perdono,
l’aiuto, la pazienza, l’ascolto...) e della quotidianità sponsale quelli che
danno vita al fratello e anche a me.
Lo Statuto, al n. 41, riprende la citazione di Gv 17,21
[la citazione non è letterale]:
«I Familiares sono raccolti in Gruppi, in ragione della
loro dislocazione geografica. Questo motivo di carattere pratico si eleva,
nella fede, a collaborazione all’azione salvifica di Cristo: Padre, ti prego, che essi siano “uno” come
noi siamo “uno” ... Così il mondo crederà che tu mi hai mandato” (cf. Gv
17,21)».
Una volta di più, ciò che è ordinario, “banalmente”
logistico, nella fede assume un significato sacramentale. Nella comunione
quotidiana – sponsale per chi è sposato, amicale per chi è amico, sollecita per
chi dedica la propria vita alla cura di qualcuno – prende “corpo”, “storia” la
comunione che è in Dio e alla quale tutti siamo chiamati, perché la sua gioia
sia piena e sia in noi.
La missione
Nei riscontri alla IV scheda, un altro dei punti di convergenza
– in sintonia piena con lo Statuto – è la missione, letta soprattutto, oggi,
come “annuncio”.
Attingo all’icona di Emmaus, che si presta a diversi
registri di lettura, non ultimo il contesto “domestico” e familiare (qualche
esegeta azzarda perfino che i due di Emmaus fossero una coppia uomo/donna) nel
quale avviene il riconoscimento del risorto.
I passaggi essenziali:
» i due sono in viaggio delusi
» uno sconosciuto li avvicina e li interroga
» i cuori si scaldano alla “lettura” della parola
di Dio
» lo sconosciuto fa «come se dovesse andare oltre»
» il riconoscimento allo spezzare del pane
» nel momento del riconoscimento si sottrae alla
vista
» la conferma della risurrezione alla comunità
dubbiosa e intimorita
Leggendo questo episodio parabolico come modello di
catechesi, siamo soliti identificarci con Gesù, la sua lectio e la sua pedagogia.
Proviamo a identificarci invece con i due di Emmaus.
Siamo testimoni e missionari non perché “ne sappiamo più
degli altri”, ma perché ne condividiamo la vita, le frustrazioni, le delusioni
anche da parte di Colui nel quale avevamo posto le nostre speranze.
Siamo testimoni perché nel cammino della vita
sperimentiamo la forza di gravità che ci porta lontano dalla Passione di Gesù,
lontano dalla vita della comunità, per vivere le nostre case, le nostre
città-Emmaus al chiuso delle nostre esperienze chiuse. E però, vivendo queste
stesse tentazioni, ci lasciamo interpellare da chi ci aiuta a leggere
l’accaduto con occhi di speranza. Anzi ne abbiamo bisogno.
Siamo testimoni perché abbiamo imparato un dialogo sincero
(nella preghiera) con chi non sa niente di noi e ha bisogno di sentirsi
raccontare il nostro sconcerto e la nostra amarezza mortificante.
Siamo testimoni di colui che ci ha scaldato i cuori e poi
ha fatto come se dovesse andare oltre, ma la genuinità della nostra invocazione
è riuscita a trattenerlo.
Siamo testimoni di un riconoscimento avvenuto allo
spezzare del pane, primo istante di un riconoscimento che si ripeterà nella
fede, non negli occhi.
Siamo testimoni perché, benché sia tardi, sia l’ora del
riposo, sia buio intorno, noi facciamo il cammino a ritroso per andare a
portare l’annuncio incontenibile agli altri. Prima era giorno fuori e buio
dentro, ora è buio fuori ma dentro c’è la luce.
Siamo testimoni, perché viviamo le nostre giornate in
questa spola senza fine tra la delusione e la speranza ritrovata, perché siamo
sempre in cammino tra Gerusalemme ed Emmaus e tra Emmaus e Gerusalemme.