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COMPAGNIA MISSIONARIA
DEL SACRO CUORE
una vita nel cuore del mondo al servizio del Regno...
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Compagnia Missionaria del Sacro Cuore
 La COMPAGNIA MISSIONARIA DEL SACRO CUORE è un istituto secolare, che ha la sede centrale a Bologna, ma è diffusa in varie regioni d'Italia, in Portogallo, in Mozambico, in Guinea Bissau, in Cile, in Argentina, in Indonesia.
News
  • 14 / 05 / 2021
    SOLENNITA\' DEL SACRO CUORE DI GESU\'
    Venerdì 11 giugno 2021... Continua
  • 14 / 05 / 2021
    SOLENIDADE DO SAGRADO CORAÇÃO DE JESUS
    Sexta-feira 11 de junho de 2021... Continua
  • 14 / 05 / 2021
    SOLEMNIDAD DEL SAGRADO CORAZÓN DE JESÚS
    Viernes 11 de junio de 2021... Continua
“il giovane non ha paura di fare della sua vita una buona avventura”
 
INTRODUZIONE Convincersi, come lo è papa Francesco, che i giovani non hanno paura di fare della propria vita una buona avventura, è la premessa necessaria per avere il coraggio di parlare della condizione giovanile e interrogarsi sul contributo che possiamo dare loro attraverso il nostro essere consacrate, secolari, con uno specifico Carisma che dà l’orientamento al nostro operare. In particolare, il vostro prossimo confronto vi porterà a decidere con coraggio azioni per “vivere comunione e missione con cuore accogliente e misericordioso” accanto anche ai giovani. Siamo appena uscite da un lungo percorso di preparazione e di attuazione del Sinodo dei giovani che è stato celebrato e si è concluso con l’esortazione apostolica “Christus Vivit” che rilancia nuovi percorsi di speranza per il mondo giovanile. Il Papa poi, attraverso i suoi discorsi alle diverse realtà che incontra, continua a sollecitare tutto il popolo cristiano affinché non venga spenta l’attenzione sui giovani. Infatti lo stesso titolo di questo intervento è una frase pronunciata da Papa Francesco nell’ incontro ecumenico e interreligioso con i giovani in Bulgaria e Macedonia del Nord (maggio 2019) Questo mio intervento terrà dunque conto dei vari documenti del Sinodo e di un approfondimento che abbiamo fatto nel 2018 in collaborazione tra diversi membri degli Istituti Secolari Italiani. Lo scopo di questo lavoro era quello di individuare le modalità proprie di questa speciale consacrazione per stare accanto ai giovani con un’attenzione particolare ai bisogni educativi individuando risposte possibili. Le riflessioni e i confronti di questo approfondimento sono stati poi pubblicati sulla rivista Incontri. Per quanto riguarda il Sinodo è utile fare un breve accenno al percorso a tappe che ha preceduto l’esortazione del Papa: la prima tappa è stata quella dell’ascolto diretto dei giovani attraverso questionari a cui hanno risposto gruppi e singoli; la seconda tappa è stata l’edizione dello strumento di lavoro per i Vescovi e i partecipanti al Sinodo che ha attinto, oltre che alle risposte date dai giovani, ad altri documenti di approfondimento sulla realtà giovanile ; la terza è stata l’Assemblea dei Vescovi e l’ultima è stata il documento finale del Sinodo con i fondamenti che spesso il Papa richiama nell’Esortazione e che possiamo riassumere con le seguenti “etichette”: la disponibilità all’ascolto (della realtà giovanile), il discernimento vocazionale (la risposta concreta alla chiamata alla libertà che il Vangelo risveglia), l’accompagnamento (personale e comunitario), la sinodalità (ovvero il camminare insieme, la vita fraterna). Si è quindi arrivati al pronunciamento del Papa. Nell’esortazione apostolica riscontriamo infatti molti rimandi agli approfondimenti precedenti. Per comprenderla meglio siamo quindi invitate anche noi, se non l’abbiamo già fatto, a ripercorrere lo stesso cammino attraverso i diversi documenti pubblicati: l’instrumentum laboris, il documento intermedio al Sinodo, il documento finale e l’esortazione apostolica “Christus Vivit”. Rispetto al lavoro fatto tra istituti secolari abbiamo proceduto in questo modo individuando quattro ambiti nei quali la nostra specifica vocazione ha qualche cosa da dire. Come primo punto abbiamo approfondito la condizione giovanile riguardo le attese e i bisogni dei giovani. Un secondo ambito di attenzione sono state le relazioni e i rapporti interpersonali, familiari e sociali che caratterizzano i giovani. E’ stata analizzata la dimensione della fede e il rapporto con la Chiesa. Infine abbiamo esplorato quali sono le scelte di vita che i giovani compiono. Questi quattro argomenti trovano concordanza con le riflessioni del Sinodo stesso. Questo per dire che non si può parlare dei giovani e “sopra” i giovani se non si considerano le loro attese, i loro bisogni, la loro modalità relazionale, la fede e le scelte che compiono. Da subito si è condivisa la difficoltà a dare voce ai giovani stessi rispetto a questi argomenti perché i temi da approfondire erano molti ma il tempo da dedicare, come accade sempre, era troppo poco. Si è deciso quindi di fare un approfondimento bibliografico facendo emergere le linee generali di ciascun argomento ma, aspetto più interessante, di individuare punti di forza e nodi problematici da assumere per provare a dare una risposta caratterizzata dalla consacrazione secolare. L’incontro tra Istituti è stata un’esperienza interessante. Vero è che la passione per i giovani, al di là della nostra professionalità specifica, è una sensibilità che abbiamo ereditato dai carismi dei nostri Istituti perché la cura dell’altro passa attraverso la cura educativa. Nella riflessione che segue ho mantenuto lo stesso schema: nodi problematici e punti di forza dei quattro ambiti citati in precedenza. Il primo punto di questa nostra riflessione è quindi la condizione giovanile che troviamo ben descritta nel primo capitolo dell’Instrumentum Laboris per il Sinodo e che vi propongo integrata dagli approfondimenti fatti con il gruppo di lavoro. Questioni aperte e nodi problematici - Le opportunità per i giovani variano in modo consistente da Paese a Paese e addirittura si possono trovare differenze in uno stesso paese e tra zone urbane e rurali - Di fronte alla globalizzazione ne risente il senso di appartenenza ad un luogo con il rischio che prevalga individualismo, consumismo, materialismo e apparenza. - La mancanza di lavoro strutturale e senza risposta. - Il fenomeno dell’ “immigrazione economica” che porta i giovani ad uscire dal paese d’origine rendendo più povero il paese stesso: “un Paese che stacca da sé la sua parte più vitale e propulsiva sopprime la possibilità di progresso, di crescita, d’innovazione. Cancella la passione per la ricerca, il desiderio di andare avanti, il sogno del futuro” (Ritanna Armeni, Messaggero S. Antonio n.3 - 2019). - Si riscontra un progressivo distacco dalla fede: non basta l’educazione religiosa ricevuta nell’infanzia perché viene messa in discussione dal giovane e dalla società stessa. - I giovani respirano la mentalità corrente antisistema ed antiistituzionale, compresa la Chiesa cattolica intesa però come istituzione. - In una società pluralistica non è facile testimoniare di credere in Dio, si preferisce un certo conformismo. - Le scelte che vengono fatte sono un’opzione tra le tante, che si possono cambiare senza problemi, rendendo difficile una scelta di definitività. - Gli adulti parlano tanto dei giovani e li identificano con il futuro, ma non li lasciano parlare, non li ascoltano in profondità. Il presente resta in mano ad adulti che non lasciano spazio, che non fanno un passo indietro per far crescere i giovani, dando loro anche delle responsabilità. - “Oggi noi adulti corriamo il rischio di fare un’analisi di disastri, di difetti della gioventù del nostro tempo. Alcuni forse ci applaudiranno perché sembriamo esperti nell’individuare aspetti negativi e pericoli. Ma quale sarebbe il risultato di questo atteggiamento? Una distanza sempre maggiore, meno vicinanza, meno aiuto reciproco”. (n. 66 Christus Vivit) - La sfida educativa: genitori, insegnanti, animatori… tutti sono chiamati a riconoscere gli errori del passato, a studiare i cambiamenti in atto per non rimanere ulteriormente indietro, ad ascoltare i giovani per poter entrare in un dialogo aperto, rispettoso, non giudicante. - Il crescere di situazioni di disagio sociale, l’abbandono scolastico, l’emergere di disturbi emotivi e del comportamento…, spesso non riconosciuti o riconosciuti con difficoltà dalla famiglia, dicono un’emergenza che le istituzioni e la società tutta rischiano di non considerare con sufficiente chiarezza e profondità. - La difficoltà del discernimento, non solo vocazionale ma anche sulla realtà che viviamo, che pure rimane fondamentale per rimanere “in ascolto dei sentimenti, dei pensieri, delle intuizioni che nascono nel cuore e che orientano all’azione”. (Come mi vedi? Ricerca sulla percezione della vita consacrata femminile – Arcidiocesi di Milano Centro Diocesano vocazioni – Centro ambrosiano 2017) Aspetti positivi e punti di forza - I giovani si fidano degli adulti che si spendono sinceramente per gli altri, che testimoniano responsabilità e coerenza. Persone che sanno capire e sollecitare il loro bisogno di senso, le loro domande profonde, la loro richiesta di valori positivi. - “I giovani non sono indifferenti verso chi si pone al loro fianco, chi non li giudica ma li stimola, è attento alla loro condizione ma è capace anche di richiamarli a grandi mete.” (La fede vista dai giovani: un panorama in evoluzione – Franco Garelli – Aggiornamenti sociali Marzo 2018) - I giovani sanno ascoltare chi sa narrare la propria vita senza nascondere amarezze, delusioni, contraddizioni. - I giovani sanno cogliere il bello, sanno sognare, sanno stupirsi… hanno bisogno di sentirsi dire che possono farlo, che non sono visionari o utopistici. - I giovani sono capaci di sacrificio per raggiungere un traguardo, per costruire il loro avvenire, bisogna lasciare loro lo spazio per mettersi in gioco. - I giovani desiderano essere ascoltati e riconoscere che il loro contributo risulta interessante ed utile in ambito sociale ed ecclesiale. (n.7 Documento Finale) Un altro ambito che necessita di molta attenzione è quello delle relazioni e dei rapporti interpersonali, familiari e sociali che caratterizzano i giovani Oggi non esiste più una condizione giovanile ma esistono giovani, ognuno diverso dall’altro e questo viene messo in evidenza da papa Francesco con molta chiarezza nell’Esortazione. I loro percorsi di crescita non sono più comuni ma individualizzati a seconda delle opportunità e risorse che hanno a disposizione e da quello che riescono a mettere in gioco. Il sociologo Mario Pollo definisce i giovani di oggi come i “nativi precari” perché nati in un tempo frammentato che non permette loro di prendere impegni a lungo termine e di stabilire relazioni durature, infatti una delle difficoltà che le nuove generazioni devono affrontare è quella di stabilire relazioni significative con gli altri. Ne deriva prima di tutto una pluralità di valori ai quali fare riferimento senza però riuscire a fare una gerarchia e definire delle priorità. A questo consegue la difficoltà a definire un progetto di vita per il quale fare delle scelte precise e definitive: “La loro vita si costruisce per occasioni e per frammenti” così scrive ancora il sociologo Mario Pollo. Questioni aperte e nodi problematici - La difficoltà nelle relazioni è generata da vari fattori, in particolare dalla inautenticità dei rapporti che si creano virtualmente ed hanno la caratteristica di essere precari e mascherati. Proprio per questo il giovane può presentarsi attraverso diverse identità a seconda del contesto in cui si trova. - C’è una fragilità nella gestione della relazione centrata sugli aspetti affettivi piuttosto che etici e di impegno nella relazione - Sono poche le occasioni di confronto di tipo intergenerazionale al di fuori della famiglia - La figura del padre è messa in secondo piano e non ha più una funzione normativa che invece è stata assunta dalla figura materna Aspetti positivi e punti di forza - La mamma è la figura di riferimento principale e con lei i figli dialogano e chiedono consigli - La famiglia è un punto di riferimento ancora molto importante - Le relazioni amicali e amorose occupano un ampio spazio - Sognano il matrimonio, la famiglia, un lavoro stabile - Chiedono dei modelli affidabili Un altro approfondimento irrinunciabile riguarda la dimensione della fede e il rapporto che i giovani hanno con la Chiesa. Il Documento Finale afferma che: “L’esperienza religiosa dei giovani è fortemente influenzata dal contesto sociale e culturale in cui vivono. In alcuni Paesi la fede cristiana è un’esperienza comunitaria forte e viva, che i giovani condividono con gioia….in altri il peso di scelte del passato hanno minato la credibilità ecclesiale. Non è possibile parlare della religiosità dei giovani senza tenere presenti tutte queste differenze (il contesto)” (n.48 Documento Finale) Nell’ambito Italiano sono state svolte due importanti ricerche dall’Istituto Toniolo: la prima ricerca, chiamata Rapporto Giovani, è stata avviata nel 2012 e rappresenta la più approfondita e completa indagine quantitativa sui giovani. Il questionario somministrato con questa ricerca riguarda aspetti diversi della vita, tra cui il rapporto con il lavoro, la famiglia, le istituzioni, il volontariato, la fede. Nel 2014-2015 è stato realizzato un approfondimento particolare sul tema della fede: tale approfondimento, realizzato con le tecniche qualitative della ricerca sociale, ha portato alla pubblicazione della ricerca “Dio a modo mio”. Questioni aperte e nodi problematici - “Il Sinodo è consapevole che un numero consistente di giovani, per le ragioni più diverse non chiedono nulla alla Chiesa perché non la ritengono significativa per la loro esistenza…” (n.53 Documento Finale) - Dalla ricerca dell’Istituto Toniolo emerge che solo il 12% dei giovani intervistati si è dichiarato praticante impegnato. Dal 2006 ad oggi è aumentata la percentuale di quelli che si dichiarano non credenti. Tra chi crede, il 35% va a messa solo in occasioni particolari, il 24% non va mai a messa. Da questi dati si può trarre la conclusione che la fede dei giovani è soggettiva: credono in Dio ma non nella Chiesa. - I giovani sono molto critici nei confronti della Chiesa: non ne comprendono le regole, che ritengono non vadano imposte. Criticano la ricchezza della Chiesa e sono molto sensibili nei confronti dei recenti scandali riguardanti la Chiesa. Non conoscono più l’alternativa Cristo sì, Chiesa no, che era di moda alcuni decenni fa. Non sono più in fase di opposizione, ma di distacco dalla Chiesa. - La preghiera comunitaria, ecclesiale non è sentita. Viene ritenuta valida solo la preghiera personale. Sono giovani che pregano, ma lo fanno a modo loro. - Pochi giovani ricordano in modo positivo l’esperienza del catechismo dell’iniziazione cristiana. Sono giovani che non conoscono bene Gesù. - Spesso, i giovani hanno difficoltà nel trovare uno spazio nella Chiesa in cui possano partecipare attivamente ed avere delle responsabilità. I giovani, dalle loro esperienze, percepiscono una Chiesa che li considera troppo piccoli e inesperti per prendere decisioni, e che si aspetta solo errori da loro. Aspetti positivi e punti di forza - La quasi totalità dei giovani manifesta un atteggiamento positivo nei confronti dell’esperienza di fede. Anche chi dichiara di non credere afferma che credere dà speranza, consolazione, aiuto, amore. - La preghiera è ritenuta qualcosa di intimo, di privato. C’è un desiderio di spiritualità, di svolgere un cammino personale. I giovani intervistati riconoscono che credere da senso alla vita, che la fede da la forza di superare le paure che si hanno. - Nella Chiesa i giovani cercano relazioni calde, cercano una comunità che li sostenga, cercano relazioni che non li facciano sentire soli. - “I giovani chiedono che la Chiesa brilli per autenticità, esemplarità, competenza, corresponsabilità e solidità culturale. A volte questa richiesta suona come una critica ma spesso assume la forma positiva di un impegno personale per una comunità fraterna, accogliente, gioiosa e impegnata profeticamente a lottare contro l’ingiustizia sociale…” (n.57 Documento Finale) - Papa Francesco piace molto ai giovani: di lui apprezzano l’amore per i poveri e la ricerca della pace. Lo sentono vicino perché si è spogliato della parte “istituzionale” della Chiesa. Infine ci guida una domanda: quali sono le scelte di vita che i giovani compiono? I giovani non vivono un’epoca di proteste e di contestazioni, vivono piuttosto un’epoca delle “passioni tristi”, che li paralizzano nelle scelte quotidiane. Soprattutto in un contesto socio-culturale in cui tutto appare accessibile si corre il rischio di non riuscire a scegliere nulla proprio per la tentazione di non perdere, scegliendo, qualcosa. Questioni aperte e nodi problematici - Mancanza di sicurezza, di continuità in un mondo dove tutto appare fluido e in movimento. - Difficilmente le scelte definitive vengono compiute prima dei 25 anni - Poche certezze a livello lavorativo, in campo economico e anche nelle relazioni rendono difficile il compiere delle scelte. - Il diffondersi di alcuni stati d'animo di crisi (insicurezza, ansia, inadeguatezza), dovuti spesso al cronicizzarsi della precarietà può far smarrire alle giovani generazioni la capacità di rischiare in proprio, inducendoli ad adagiarsi nello spazio rassicurante e avvolgente della famiglia. - Salari bassi comportano un rinvio delle scelte - Le scelte definitive possono essere viste come vincoli più che come opportunità Aspetti positivi e punti di forza - Il Documento Finale riconosce che la felicità è favorita dal sentirsi attivi, dal fare, dal vedere il proprio tempo utilmente impiegato, dall’aver compiuto delle scelte. È legata non tanto al reddito e al benessere economico, ma soprattutto alla produzione di senso e al riconoscimento sociale che si ottengono attraverso il proprio agire. - “L’impegno sociale è un tratto specifico dei giovani d’oggi…. L’impegno sociale e il contatto diretto con i poveri restano un’occasione fondamentale di scoperta o approfondimento della fede e di discernimento della propria vocazione”. (n.46 Documento Finale) - C’è il desiderio di compiere scelte importanti e di lasciare un’impronta nel mondo Carlo Maria Martini così scrisse: “Alla gioventù vorrei dire questo: rischiate qualcosa! Rischiate la vostra vita! Perché, per paura delle decisioni, ci si può lasciare sfuggire la vita. Certo, chi ha il coraggio rischia di sbagliare. Ma chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. E ai coraggiosi, poi, sono concessi amici sinceri. Solo gli audaci, infatti, cambiano il mondo rendendolo migliore”. Pongo infine, alla vostra riflessione, la stessa domanda che ci siamo fatte tra Istituti: Cosa possiamo offrire ai giovani, come Istituti Secolari, per accompagnarli nell’affrontare i nodi problematici che abbiamo descritto? - La specificità degli I.S. è l’attenzione e la simpatia per il mondo con il cuore immerso in Dio. Solo così saremo capaci di profezia, di relazioni personali attente, di ascolto autentico, rimanendo dentro anche alle contrarietà e alle tensioni, valorizzando la diversità e la pluralità. - Conoscere ed usare in modo corretto e costruttivo i nuovi mezzi di comunicazione, senza perdere occasione di riflessione con i giovani sull’utilità ma anche sulla pericolosità di tale nuova tecnologia. - Saper scrutare la realtà e in particolare la realtà giovanile in profondità, con orizzonti ampi, senza paura di percorrere anche strade nuove. “Le nuove generazioni hanno bisogno di vedere la bellezza insita nel lavoro, di assaporare la passione che una persona può mettervi, di essere accompagnate passo dopo passo, di ricevere fiducia, di capire il senso vero della responsabilità, di cogliere la necessità di crescere in competenza e umanità”. (Atti del Convegno di Roma del 28 e 29 ottobre 2017 – Incontro 6/2017) - Saper dare ragione della fiducia che sentiamo nei loro confronti ma anche essere modello che guarda con fiducia il nostro tempo attuale, le persone che frequentiamo, i giovani che incontriamo, fratelli e sorelle in Dio che ne siano consapevoli e meno. - Con le nostre competenze e professionalità siamo in grado di curare la formazione di “donne e uomini capaci di leggere e affrontare questo cambiamento d’epoca con riflessione e discernimento, cioè senza pregiudizi ideologici, inseriti nella complessità di alcune situazioni senza paure o fughe. Una formazione che aiuti a vivere i problemi come sfide e non come ostacoli perché il Signore è attivo e all’opera nel mondo”. (Atti del Convegno di Roma del 28 e 29 ottobre 2017 – Incontro 6/2017) - Dai vari approfondimenti risulta un mondo giovanile che nasconde tesori di interiorità e un’inedita attesa di Dio. Ma, per educare questo mondo, dobbiamo passare da un modello che intende proporre una serie di impegni a uno impostato sul dialogo, che è scambio, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento. - Possiamo essere capaci di promuovere nei giovani la crescita, nei confronti di loro stessi, degli altri, della vita sociale e civile perché è l’anelito che ciascuna di noi ha vissuto e continua a vivere personalmente. - Ci caratterizza la stessa capacità di Papa Francesco, che ritroviamo nell’Esortazione C.V. di comunicare con chiarezza il Vangelo, di motivare e incoraggiare, di dare speranza. - Siamo capaci di accompagnare per rimettere al centro l’attenzione all’altro, la ricerca di una integrazione tra il bene personale e il bene comune, l’importanza di pensare il futuro non al singolare, ma al plurale. - Siamo in grado di proporre modelli positivi di relazione che durano nel tempo e oltre il tempo - Siamo esercitate nella disponibilità all’ascolto (della realtà giovanile), al discernimento vocazionale, all’accompagnamento (personale e comunitario), alla sinodalità (ovvero il camminare insieme, la vita fraterna). La riflessione non si ferma qui e il confronto deve continuare nell’ambito del vostro Istituto assumendo quanto Papa Francesco ha scritto per i giovani e per tutti i cristiani, in conclusione all’Esortazione : “E per concludere... un desiderio: Cari giovani, sarò felice nel vedervi correre più velocemente di chi è lento e timoroso. Correte «attratti da quel Volto tanto amato, che adoriamo nella santa Eucaristia e riconosciamo nella carne del fratello sofferente. Lo Spirito Santo vi spinga in questa corsa in avanti. La Chiesa ha bisogno del vostro slancio, delle vostre intuizioni, della vostra fede. Ne abbiamo bisogno! E quando arriverete dove noi non siamo ancora giunti, abbiate la pazienza di aspettarci». PREGHIAMO INSIEME Egli è la sorgente della migliore gioventù. Perché chi confida nel Signore «è come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi» (Ger 17,8). Mentre «i giovani faticano e si stancano» (Is 40,30), coloro che ripongono la loro fiducia nel Signore «riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31). BIBLIOGRAFIA: Esortazione Apostolica Christus Vivit Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? – Il Mulino, Bologna 2016 La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede – Armando Matteo – Nuova Edizione Speciale Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2017 Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso – Alessandro Castegnaro – Ancora 2013 Messaggio di Papa Francesco 27 gennaio 2017 Sinodo 2018 Papa Francesco e i giovani: dieci frasi per una nuova “primavera” nella Chiesa La fede vista dai giovani: un panorama in evoluzione – Franco Garelli – Aggiornamenti sociali Marzo 2018 Come mi vedi? Ricerca sulla percezione della vita consacrata femminile – Arcidiocesi di Milano Centro Diocesano vocazioni – Centro ambrosiano 2017 Atti del Convegno di Roma del 28 e 29 ottobre 2017 – Incontro 6/2017 Istat – Rapporto annuale 2017. La situazione del Paese La condizione giovanile in Italia – Rapporto giovani 2017 – Istituto Toniolo https://agensir.it/chiesa/2017/05/16/asemblea-cei-e-sinodo-mario-pollo-sociologo-i-giovani-nativi-precari-ci-insegnano-una-nuova-progettualita/ Chiara Giaccardi Relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale - Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano 2010 Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, a cura di R. Bichi - P. Bignardi, Milano, Vita e Pensiero, 2016 Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani in Bulgaria e Macedonia del Nord 7/5/2019
vivere comunione e missione con cuore accogliente e misericordioso. prospettiva biblica
 
  Il titolo della relazione offre una chiave di lettura che viene dalle Scritture. La Bibbia è una biblioteca, che apre per le sue lettrici una pluralità di prospettive, numerose vie d'accesso. “C'è un libro per ogni cosa”, potremmo dire, parafrasando il Qohelet! E tuttavia, tutte le narrazioni bibliche, per quanto molto differenti tra loro, sorgono da una medesima grammatica, i cui contenuti essenziali possiamo ritrovare proprio in questo titolo. Mi limiterò, dunque, a dare peso a queste parole, a evidenziarne la posta in gioco, così come viene messa a fuoco nelle Scritture. 1. Innanzitutto, “vivere”. È proprio il verbo giusto, dal punto di vista biblico. Dal nostro punto di vista, probabilmente, gli avremmo preferito il verbo “fare” o la sua variante più poetica: “creare”. Per noi la comunione e la missione appartengono all'ordine delle azioni. Soprattutto oggi, quando le chiese tutte, gli ordini religiosi, le varie associazioni ecclesiali sentono il fiato corto di presenze ridotte ai minimi termini, ecco che diviene evidente l'urgenza di rimpolpare le fila, pena l'esaurimento dell'esperienza. Certo, non siamo poi così spudorate da affrontare questa sfida in termini di numeri, con una mentalità da marketing; ricorriamo a parole più religiose, come comunione e missione. Ma al fondo della questione, magari in modo non del tutto consapevole, pensiamo che si tratti di agire, di predisporre nuove strategie, aggiornando il vocabolario e rendendo più appetibile la proposta. Intendiamoci bene: non è che la domanda sul “fare” sia sbagliata. Ma non funziona come punto di partenza. La Bibbia ci suggerisce di essere più radicali, ovvero di andare alla radice. Di risalire a monte di quella valle in cui si muovono le nostre legittime preoccupazioni. E alla radice di tutto ci sta il “vivere”, accompagnato dalla domanda antropologica: “cosa significa vivere?”. La Bibbia, più che un discorso umano su Dio – un libro di teologia – presenta il discorso divino sull'umanità – un libro di antropologia. Forse, le chiese, hanno letto le Scritture con l'intenzione di estrarre la retta dottrina, il “Credo” costitutivo dell'esperienza ebraico-cristiana e hanno lasciato in ombra il fatto che la fede è il lievito per la pasta della vita. O, per dirla con la conclusione del Vangelo secondo Giovanni: che la Parola testimoniata nelle Scritture intende sì suscitare la fede; ma quest'ultima è in funzione del vivere. Il Quarto evangelista dichiara che i segni da lui attestati “sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (Gv 20,31). Dunque, si ascolta la Parola per credere; ma si crede per vivere. Gesù è venuto affinché tutte e tutti “abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Alla scuola dell'evangelista Giovanni, possiamo apprendere la passione per la vita. E riscoprire la prospettiva del “vivere” significa liberare la fede dalle secche moralistiche e dottrinarie per mettere in evidenza il suo carattere esistenziale. Dalla Genesi all'Apocalisse, la Bibbia vuole essere un canto della vita. Un canto intelligente, realistico, ben consapevole che la vita può essere tradita. È quanto viene espresso col termine “peccato”. Per le nostre orecchie, questa parola suona moralistica, come trasgressione della Legge. Ma trasgredire una norma si dice “reato”, non “peccato”! Il termine ebraico, alla lettera, significa “fallire il bersaglio”. Si tratta, dunque, di una prospettiva esistenziale: tu desideri essere felice ma operi delle scelte che ti allontanano dalla meta, ti portano a fallire il bersaglio. Il senso del termine ebraico che traduciamo con “peccato” lo possiamo cogliere nell'uso esclamativo che ne facciamo: “peccato che non hai raggiunto quanto desideravi! Peccato che non sei felice!”. Alla radice di tutto c'è il vivere. Ma noi, esseri umani, non nasciamo con le istruzioni per l'uso, non sappiamo in partenza cosa significhi vivere. Respiriamo, ci muoviamo, cresciamo: ma il senso del nostro vivere non emerge in automatico. Di qui la domanda: “cosa significa vivere?”. Domanda sapienziale per eccellenza, che va continuamente posta, perché mai esaurita. Domanda da riproporre, oggi, in cui abbiamo a disposizione tutte le risposte: ce le fornisce il signor Google! Oggi, il problema non sono le risposte ma le domande. Quali domande ci facciamo? Semplici quiz, che prevedono una risposta esatta (prospettiva del cosiddetto “problem solving”)? O siamo capaci di domande che durano un'intera esistenza, domande sapienziali sul “come vivere” più che sul “cosa fare”? Che bello se una chiesa, un ordine religioso fosse in grado di testimoniare questa radice dell'esperienza credente. Così che chi ci guarda dall'esterno non pensi immediatamente a dei venditori di un prodotto religioso, che cercano di convincere le persone ad entrare nel loro negozio. Se ci riducessimo a questo, avremmo già in partenza tradito l'evangelo della grazia, ovvero dell'amore gratuito di Dio! Com'è differente stare nella compagnia degli esseri umani come persone che si chiedono “cosa significhi vivere” e che testimonino che la fede ha qualcosa da dire proprio a questo riguardo, che non è una “cosa di chiesa” ma ha a che veder con l'arte di vivere. Di vivere bene, non come schiavi, ma in una terra libera; non come succubi della mentalità del faraone ma provando a battere la strada alternativa suggerita dalle “dieci parole” di libertà. Il Dio d'Israele e di Gesù, che raccoglie il nostro grido e desidera liberarci dalle catene, continua a dirci: “scegli la vita” (Dt 30). Perché non è vero che la vita procede in automatico – basta che respiri e che il cuore continui a battere. Lo vediamo bene oggi, in una società tendenzialmente depressiva, in mezzo ad un'umanità spaventata, stanca, arrabbiata. Noi per prime e poi nella veste delle testimoni dobbiamo tenere viva la domanda sul “vivere”. 2. Per la Bibbia, la vita ha un centro, ovvero il “cuore”. Sgombriamo il campo dai fraintendimenti: per le Scritture “cuore” non ha quell'accezione romantica che ha per noi. Il cuore non è la sede dei sentimenti. O meglio, non è solo questo. Nel mondo delle Scritture, il cuore è la cabina di regia di ogni espressione umana. Col cuore, certo, si sente, ma anche si pensa, si decide, si agisce. Se noi diciamo alle nostre ragazze: “usa la testa”, la Bibbia direbbe: “usa il cuore”. La qualità della vita la si gioca nel cuore. Un cuore che può essere “ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Ger 17,9; cfr. Gen 6,5; 8,21); un cuore che può ripiegarsi su di sé (così Lutero definiva la condizione di peccato: “cor incurvatum”) e divenire indurito (Es 7,13), di pietra (Ez 11,19; 36,26). Ma che può anche essere un cuore di carne, capace di amare Dio con tutto se stesso (Dt 6). O con le parole del nostro titolo: il cuore può essere misericordioso ed accogliente ma anche spietato ed egoista. Le parole dello Shemà Israel, che costituiscono la preghiera quotidiana delle sorelle e dei fratelli ebrei, si presenta come un'intensa riflessione sul cuore. È dal cuore che sorge la passione dell'amore e la scelta di dare forma alla fede seguendo i comandi del Signore. Alla lettera, viene detto che la parola che Dio ha rivolto al suo popolo sta “sul tuo cuore”. Non “dentro”, come un dato già acquisito e fatto proprio. Piuttosto, come una realtà che sta sull'orlo del cuore; dipende da noi farla cadere dentro o lasciarla scivolare fuori. Perché sia la Parola ad educare il cuore e dare forma all'esistenza, occorre domandare – come fa Salomone – un “cuore che sa ascoltare” (1 Re 3,9). E' il cuore, più che l'orecchio, l'organo dell'ascolto. L'arte della meditazione prova a prendere sul serio questa indicazione che non esaurisce il percorso della Parola nel suono che colpisce il timpano dell'orecchio e nel significato colto dal cervello. Affinché la Parola dia forma all'esistenza è necessario che si radichi nel cuore, orientando l'intelligenza, certo, ma anche il sentire, il gustare, il discernere, il decidere, l'agire. Nel Nuovo Testamento, forse è soprattutto l'evangelista Matteo ad indicarci un'interessante prospettiva nel custodire il cuore. Matteo, infatti, presenta Gesù certo come il Signore – “l'Emmanuele, il Dio con noi” - e come il Salvatore; ma per lui, Gesù è soprattutto il Maestro. Il Vangelo secondo Matteo è costruito attorno a cinque grandi discorsi che Gesù rivolge ai suoi discepoli affinché divengano scribi sapienti, in grado di estrarre dal loro tesoro cose nuove e cose vecchie (Mt 13,52). Tutti questi discorsi, a partire dal primo, quello pronunciato sul monte (Mt 5-7), mirano ad illustrare la sapienza del Regno e a farla radicare nel cuore. Così che il cuore divenga misericordioso e accogliente persino nei confronti dei nemici. Dietro certe indicazioni che a noi suonano paradossali – porgere l'altra guancia, dare anche la tunica... - vi è in gioco una differente sapienza delle relazioni, sottratte al limite delle re-azioni simmetriche (se l'altro mi picchia, anch'io faccio altrettanto) e capaci di spiazzare l'interlocutore, di promuovere gesti creativi. In un momento storico in cui prevalgono le reazioni impulsive, di pancia, con tutto il loro carico di rancore, di vendetta e di odio, oltre a deplorare questa pericolosa deriva societaria, occorre lavorare a monte per formare cuori che sono in grado di promuovere un differente vedere, sentire, valutare, agire. La misericordia e l'accoglienza non sono sentimenti spontanei. Tutt'altro! È necessario che il cuore faccia esperienza della grazia, che perdona e accoglie. Che il cuore senta le parole di Gesù: “misericordia voglio, non sacrificio”; e “l'avete fatto a me”. Le chiese, così attente alla formazione catechistica e all'educazione sacramentaria, spesso dimenticano che alla base di ogni proposta di fede vi è l'educazione del cuore. Oggi, in un momento in cui abbiamo smarrito il senso dell'essere umani, c'è un lavoro pedagogico di tipo sapienziale, un'educazione dei cuori, che domanda di divenire prioritario. 3. Solo a questo punto possiamo affrontare i due sostantivi del titolo. Innanzitutto, la comunione. Per niente scontata nel nostro contesto storico, la comunione è il frutto maturo della sapienza relazionale. Il discorso della comunione si avvale della grammatica dei legami, di uno sguardo sulla vita che vada oltre l'idolo del nostro “io” recuperando la verità del “noi”. Di nuovo, è in gioco il “vivere”, la domanda su cosa significhi vivere. Si tratta di cogliere tutta la portata di quella parola originaria, detta da Dio: “non è bene che l'essere umano sia solo” (Gen 2,18). In una creazione “buona”, la prima cosa “non buona” è il pensarsi senza l'altro, come se ci facessimo da soli e non fossimo “figlie” e “figli”. Può essere utile leggere l'opera in due volumi di Luca – il suo Vangelo e il libro degli Atti degli apostoli – come una riflessione sul vivere la comunione. La comunione offerta da Dio ad un'umanità che la fugge e si ritrova perduta – come i due figli della parabole (Lc 15); una comunione vissuta nella comunità ecclesiale, come nei sommari di Atti (2, 42ss; 4, 32ss), dove vengono esplicitati gli ingredienti di base della comunione. Alla scuola di Luca impariamo che la comunione non è mai dato di partenza, ma sorpresa delle “seconde volte”. In principio, c'è il rifiuto, come quello patito da Gesù a Nazareth (Lc 4) o dalla prima chiesa di Gerusalemme (At 5: Anania e Saffira). Solo la misericordia e l'accoglienza reciproca possono riaprire i sentieri interrotti della comunione. Impariamo che la logica della comunione non ha niente a che spartire con il calore settario, avendo un respiro universale, che giunge fino ai confini (non solo fisici, ma anche esistenziali) della terra (At 1,8: programma dato dal Risorto). E che l'universalità delle relazioni si misura col criterio del povero, con la sfida di essere una realtà portatrice di una buona notizia per i più poveri (Lc 4,18). Ma questo respiro ampio della comunione prende forma “a partire da sè”: solo una chiesa comunionale può annunciare l'evangelo della fraternità. La comunione, prima di essere un tema, è uno stile, un modo di vivere la fede camminando insieme (sinodo!), superando le barriere che dividono le donne e gli uomini, gli ebrei e i pagani, gli schiavi e i liberi. Una chiesa dal volto fraterno, portatrice della sapienza dei legami, capace di collaborare con tutte e tutti, che antepone il bene comune alla propria affermazione. Scommettere sulla comunione significa convertirsi da un modo d'essere autoreferenziale, anche quando si è tentati di giustificarlo in nome della fedeltà a Cristo. Significa pensarsi come piccoli laboratori di relazioni significative, creative, dove nulla è scontato e tutto va ripensato. 4. Infine, la missione. Che non è l'appendice alla comunione, una sua dilatazione che coinvolge altre persone. L'urgenza della missione non può essere dettata da esigenze di sopravvivenza o di espansione. Missione non è proselitismo o marketing al fine di rimpolpare le fila sempre più esigue. È un sentirsi “mandate”, senza sapere bene dove andare, come muoversi, cosa fare. Almeno, per l'evangelista Marco – come per Abramo - si tratta di questo. Non della marcia trionfale di chi intende conquistare il mondo, forte della verità ricevuta e della fede salda con cui la si è accolta. Con linguaggio paradossale, Marco racconta di discepoli e discepole che non capiscono, fraintendono, sperimentano la loro inadeguatezza; e in questa postura, che sembrerebbe congelare ogni desiderio missionario, provano, ogni volta daccapo, a ricominciare a stare con Gesù e ad andare ad annunciare la parola e la forza del Regno (Mc 3,13-15). Normalmente, non si attingono da Marco le indicazioni per la missione. Personalmente, ritengo che oggi questo racconto evangelico sia illuminante per muoverci in un contesto ingarbugliato, in cui ci sentiamo spiazzate e inadeguate. Oggi, la missione deve saper coniugare i linguaggi opposti della passione e della fragilità. Oggi, la fede può essere testimoniata da chi condivide l'incertezza e sperimenta sulla propria pelle il fallimento. Come le discepole descritte da Marco, che di fronte all'annuncio della resurrezione “fuggono, senza dire niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc 16,8). Questo scandaloso finale di racconto sembra mettere sotto scacco il senso stesso dell'evangelo. Dove sta la buona notizia per un'umanità in fuga da se stessa, spaventata e senza parole? Per Marco, l'evangelo si nasconde nel versetto precedente (16,7), dove risuona la parola del messaggero celeste: “vi precede in Galilea; là lo vedrete”. I credenti non sono migliori degli altri; non hanno una marcia in più. Fragili e fallibili, possono contare unicamente nella speranza che il Risorto continua a precederli e li rimanda in Galilea, laddove tutto aveva preso inizio. Un po' come il gioco dell'oca, si tratta di tornare alla partenza, di ricominciare dall'inizio. Per Marco solo i ripetenti possono essere missionari credibili. Che condividono realmente (non per finta, per strategia) la fragilità della condizione umana, sorretti dalla speranza che ci è sempre data una “seconda volta”. Quando si fa i conti con la propria inadeguatezza, si smette di essere giudicanti e si coltivano relazioni empatiche con tutti, anche con i falliti della vita, con i dannati della terra. Imparare alla scuola di Marco l'arte della missione significa umanizzare la fede, riscoprire la comune condizione umana, scommettere sulla possibilità di ricominciare. Significa essere missionari di umanità, per poter essere testimoni credibili di quel Dio che ci manda ad annunciare che il suo Regno, nonostante tutto, è vicino. Alla scuola dei quattro Vangeli, siamo chiamate a ripensare le grandi parole della fede, perché possano essere significative per noi e per le donne e gli uomini del nostro tempo. Forse, in mezzo alle molte fatiche che ci angustiano, questo nostro tempo ci mette tra le mani il “dono dell'incertezza”, che ci obbliga a non procedere in automatico (“si è sempre fatto così”!) e a riaprire il cantiere evangelico dell'ascolto della Parola per discernere quanto lo Spirito intende suggerire alle chiese. A questa Parola siamo affidate (At 20,32): che il nostro cuore la mediti giorno e notte (Sal. 1)! Lidia Maggi
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