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COMPAGNIA MISSIONARIA
DEL SACRO CUORE
una vita nel cuore del mondo al servizio del Regno...
Compagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia Missionaria
Compagnia Missionaria del Sacro Cuore
 La COMPAGNIA MISSIONARIA DEL SACRO CUORE è un istituto secolare, che ha la sede centrale a Bologna, ma è diffusa in varie regioni d'Italia, in Portogallo, in Mozambico, in Guinea Bissau, in Cile, in Argentina, in Indonesia.
News
  • 14 / 05 / 2021
    SOLENNITA\' DEL SACRO CUORE DI GESU\'
    Venerdì 11 giugno 2021... Continua
  • 14 / 05 / 2021
    SOLENIDADE DO SAGRADO CORAÇÃO DE JESUS
    Sexta-feira 11 de junho de 2021... Continua
  • 14 / 05 / 2021
    SOLEMNIDAD DEL SAGRADO CORAZÓN DE JESÚS
    Viernes 11 de junio de 2021... Continua
compagnia missionaria e spiritualità di comunione
 
Le parole di s. Paolo e di p. Dehon, citate sopra, esprimono alcuni atteggiamenti fondamentali perché un gruppo di persone possa stabilire rapporti di comunione. La fraternità da voi scelta come condizione in cui esprimere la vostra vocazione – anche se in forme diverse – ha il suo fondamento nella vita teologale, dal momento che il segreto della felicità dell’uomo e di una nuova umanità sta nel mistero stesso della Trinità: la comunione. Premessa – Comunione: un’urgenza attualissima Sentirsi uniti da un carisma – la spiritualità del Cuore di Cristo – e dal valore della comunione, può darci la sensazione di pensare e sentire tutti allo stesso modo, poiché abbiamo valori e linguaggio comuni, che danno una sensazione di omogeneità. Di fatto, la realtà è più complessa. Ogni persona aspira a valori e atteggiamenti che ritiene importanti per la propria esistenza e cerca di tradurli in comportamenti coerenti. Le aspirazioni ideali, tuttavia, anche se sono fondamentali non bastano: costituiscono il punto di partenza, che deve incarnarsi in scelte di comportamento coerenti con tali valori. Il cammino della nostra vita sta tutto in questa costante tensione tra l’ideale oggettivo e l’impegno soggettivo di tradurlo nella vita quotidiana. Davanti alla spiritualità del Cuore di Cristo, declinata nella vita e negli scritti di p. Dehon – e mediata per la Compagnia Missionaria da p. Albino Elegante – ognuno sente risuonare dentro di sé alcuni valori che percepisce più “suoi”, più in sintonia con il suo essere. Questa risonanza interiore, tuttavia, va vissuta con una particolare avvertenza: ciò che uno sente risuonare dentro di sé come elemento più in sintonia con la propria realtà personale è semplicemente il punto di partenza per fare spazio a tutto il resto del Vangelo. Lo stesso va detto degli aspetti che sente più faticosi: essi indicano i punti più bisognosi di attenzione e di comprensione per farli oggetto del proprio cammino di conversione. A livello generale, infatti, è importante vigilare per non ridurre la spiritualità a una realtà teorica o puramente soggettiva. Pur sentendo più centrali ed evocativi per sé alcuni valori del Vangelo, ognuno di noi non può/non deve confondere una parte con il tutto ma, a partire da ciò che sente più sintonico con la propria realtà personale: tutti siamo chiamati a vivere una vita interamente evangelica, che ci conduca a essere un’umile incarnazione di Dio Amore. Il mondo di oggi, così ferito e offeso nelle relazioni ha bisogno di questo. Infatti, oggi in ogni ambito della nostra società, la libertà è percepita come un valore che divide più che unire. Essa viene sempre più spesso chiamata in causa per mettere distanza, per marcare dei limiti tra le persone, non per favorire la loro unione. Oggi, la competizione ha un ruolo crescente, anzi, sembra essere il criterio dominante: egocentrismo, arrivismo, carriera, culto del successo ad ogni costo, arrivare a essere i primi e meglio degli altri... sono questi i nuovi “comandamenti” della cultura attuale. E anche noi, in comunità o in famiglia, non siamo esenti da questi idoli e dalle dinamiche che innescano. Il risultato, lo vediamo, è la rottura delle relazioni umane. Il mondo intero – non solo quello occidentale – è malato, colpito da un morbo che progressivamente lo corrode in ciò che possiede di più umano: la capacità di stabilire e mantenere relazioni permanenti e fedeli, la capacità di comunione, gratuità, amore, appartenenza, unità... L’esaltazione unilaterale dell’individuo come soggetto che può trovare la propria realizzazione in se stesso, sganciato dalla comunità e dalla famiglia, o addirittura in contrapposizione agli altri, è il leit-motiv della cultura attuale. Non importa se il nostro tempo si caratterizza anche per fenomeni dilaganti come la depressione, il suicidio, l’insoddisfazione per la vita: nonostante l’enorme bisogno di comunicazione e di comunione, la nostra epoca sembra paradossalmente complottare contro di essa. D’altra parte, ciò è riconducibile a un dato ontologico: in tutti noi c’è il desiderio di comunione/amore/amicizia, ma queste realtà ci fanno anche paura. C’è un aspetto di fascino e paura nell’incontro con l’altro, chiunque esso sia, perché la diversità dell’altro ci mette in discussione, perché intuiamo che l’aprirsi all’“altro” provoca ed esige un cambiamento. Quando noi consacrati scegliamo di vivere alla luce del Vangelo – in comunità o in famiglia – accogliamo l’invito a intraprendere un’avventura misteriosa, enormemente più grande della nostra capacità di immaginazione. Non abbiamo scelto di vivere in comunità perché ci sentiamo già capaci di vivere in modo evangelico. Neppure possiamo aspettarci di godere un clima di rapporti perfetti, ideali, forniti dai fratelli o dalle sorelle. Piuttosto, intraprendiamo la vita comunitaria perché crediamo nella possibilità e nella verità di tali valori per noi e per il futuro del mondo; perché crediamo e speriamo che solo nella tensione costante a un amore semplice, povero, disinteressato diventiamo davvero “figli” del Dio di Gesù Cristo e costruiamo il suo Regno. Vivere insieme alla luce del comandamento dell’amore è un ideale che ci ripetiamo spesso, ma è un progetto molto al di sopra della nostra genialità e delle nostre povere forze, e riserva continue sorprese. Cominciamo questo cammino, ma non sappiamo dove ci condurrà e cosa ci chiederà. Crediamo e speriamo però che la vocazione ricevuta porta con sé la grazia per riconoscere quegli indizi della storia che ci permetteranno di sintonizzarci con il cuore di Dio, purché sia tenace e visibile nei gesti quotidiani la nostra continua ricerca e apertura al Bene, la scelta di mettere l’amore e la riconciliazione di Cristo a fondamento della nostra vita. Il comandamento dell’amore – amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 15,13; 1Gv 1,3-4) – è il fondamento della vocazione cristiana e della spiritualità del Cuore di Cristo. Ciò significa: dare la vita. E per non cadere nel moralismo o nel soggettivismo, in una spiritualità disincarnata o in un attivismo autoreferenziale, una sana spiritualità ci fa tenere unite contemplazione e azione, per vivere in un atteggiamento di discepolato concreto, per rimanere nella sana tensione verso la libertà di amare come ama Dio. A partire dal testo ricco di significati dei vostri Statuti di Missionarie e Familiares e dalle vostre risposte, vi presento alcuni spunti di riflessione per una verifica e un approfondimento specifico che aiuti a concretizzare, non solo a conoscere, i valori propri della spiritualità del Cuore di Gesù. 1. Una spiritualità di comunione Per evitare voli pindarici, chiediamoci: che cosa si intende con il concetto di “spiritualità”? Intendiamo una vita teologale, cioè fede e speranza vissute come amore responsabile nella/della storia. Proprio per vivere a fondo la storia degli uomini noi cerchiamo costantemente la sintonia con il Cuore di Dio-Amore, unico principio attivo di ogni possibilità di comunione. La nostra vita fraterna, in comunità e in famiglia, trova qui le sue radici. Tutto inizia dall’atteggiamento dell’accoglienza. Si tratta di accogliere il dono dello Spirito di Dio che ci vuole costruire a sua immagine; accogliere l’Amore che ci precede e ci viene incontro sempre. L’Amore accolto ci porterà a essere figli, cioè a essere immagine di Dio. E poiché Dio non è solitario, ma mistero di comunione, anche noi troviamo la nostra identità nell’apertura e nella comunione con l’altro (natura, uomini, vicende, Dio). Solo rimanendo sempre aperti all’alterità si costruisce in noi l’immagine di Dio, scopriamo la nostra identità. Noi siamo chiamati a vivere insieme per accoglierci: siamo affidati gli uni agli altri per essere segno di quell’accoglienza originale di Dio che ci fa essere e ci pone costantemente nella Vita, nel Bene, nell’Amore; perché si riveli la sua potenza nelle nostre debolezze.             In questo senso comunità e famiglia sono luogo privilegiato di crescita verso l’amore e fondamento di ogni azione pastorale. A condizione che noi cerchiamo di vivere un’autentica vita teologale e possediamo uno sguardo contemplativo in grado di vedere Dio costantemente all’opera nella nostra vita. Dio è presente in tutto, anche se non lo si vede, ma per rendersi visibile deve passare attraverso la nostra accoglienza. Infatti, per agire nel mondo creato Dio ha scelto di incarnarsi: prima nella Parola, e poi nel Verbo fatto uomo. Ora chiede di incarnarsi nella storia di ciascuno di noi. La nostra scelta di vita è offrirsi a Dio con tutto noi stessi per essere spazio della sua azione nel mondo, oggi, e ci impegna sul cantiere della storia. In questo senso realizziamo quel «complemento reale dell’immolazione di Cristo» (Statuti, 10), che non aggiunge niente all’offerta di Cristo, ma la attualizza nella nostra vita, permettendo a noi di vivere quell’unione al Cuore di Gesù che ci fa “rimanere in Lui” (cfr. Gv 15), essere una cosa sola con Lui. Così si vive la conversione alla libertà di amare come Dio ama... 2.    Per una comunione viva La vocazione consacrata si nutre della comunione con Dio e con i fratelli/sorelle. Cosa dire di più specifico a questo proposito? A quali atteggiamenti sollecitano i vostri Statuti per crescere nella sua realizzazione? Condivido con voi alcune brevi riflessioni in progressione, che ritengo importanti per vivere realisticamente di una spiritualità di comunione. Ciò che è riferito alla comunità è valido – con le necessarie distinzioni – anche per la famiglia. a. Una visione dinamica della vita. La vita è in sé stessa relazione, così come l’amore dice relazione.             Le scienze umane, con la visione dinamico-evolutiva che le caratterizza, ci informano che la persona è relazione e si struttura attraverso i rapporti. L’uomo, cioè, non è già sé stesso in modo chiaro e definitivo al momento della nascita, ma lo diventa attraverso una fitta rete di relazioni che lo costituiscono nella sua identità, permettendo così anche  l’espressione della sua interiorità. Ciascuno di noi cresce e diventa individuo in forza di comunità vitali (società, famiglia, scuola, gruppi, comunità...) e dei rapporti che in esse stabilisce. Proprio la qualità dell’inserimento nel nostro tessuto comunitario esprime quanto anche noi siamo vitali, cioè capaci di generare vita e alimentare altre comunità. b. In comunità per divenire noi stessi. La comunità ha questo scopo fondamentale: la piena maturazione delle persone. San Paolo esprimeva questa realtà quando scriveva che la sua paternità aveva come scopo che i fratelli potessero crescere « finché Cristo sia formato in voi » (Gal 4,19); e altrettanto quando spiegava che i diversi doni di grazia da loro ricevuti dovevano condurli alla « piena maturità di Cristo » (Ef 4,13). Questi riferimenti paolini non sono casuali: ci dicono che la nostra vera identità consiste nel giungere a essere figli come “il” figlio Gesù, a immagine del quale noi siamo stati creati (cfr. Ef  1,3-14).              La comunità, quindi, è per la crescita delle persone, le quali giungono alla verità e pienezza di sé aprendosi progressivamente e continuamente alla novità del vangelo e del Regno. Essa vuole essere luogo privilegiato affinché ciascuno possa giungere alla sua piena identità di figli di Dio, dando un volto unico ed originale al desiderio/vocazione al bene che porta iscritto dentro di sé.             E in una comunità/famiglia tutti contribuiamo a creare quel clima vitale che permette questa crescita. O si cresce insieme o non si cresce. Se qualcuno non dà il suo contributo tutti ne risentono; se qualcuno presenta resistenze all’accoglienza della vita, che arriva a noi sempre attraverso mediazioni umane - cioè gli altri fratelli –, tutti subiscono conseguenze. L’unità e la comunione prima ancora che essere frutto di un impegno della nostra volontà sono un dono che viene a noi da Dio nella forma del dono di sé che ci facciamo gli uni gli altri.             Per questo la comunità religiosa – diceva s. Tommaso – è una scuola di carità perfetta. È una scuola dove nella relazione con i fratelli si impara a voler bene, a volere il Bene a ogni costo e per tutti. Ciò richiede di saper riconoscere il Bene presente nella propria storia e in quella dei fratelli; saper interiorizzare il Bene che è Dio-Amore e lasciare che si esprima attraverso i nostri gesti, le nostre parole, i nostri silenzi, ecc... M. GRAZIA VIRDIS, Ut unum sint c. Scegliere la propria comunità.             Quando entriamo in comunità troviamo un ambiente e persone che hanno una storia, una tradizione e stili già collaudati. Educarsi alla comunione e vivere la fraternità – o, come è scritto nei vostri statuti, « farci comunione » – comincia con la scelta consapevole di accettare la storia e la tradizione di una comunità che ci accoglie e che noi accogliamo. È il grande tema del senso di appartenenza alla comunità e al carisma dell’Istituto. Accettare non significa lasciare tutto com’è, ma arricchire la comunità con il contributo della propria unicità, della propria diversità anche etnica e culturale e stimolarla a crescere in forza delle energie presenti in essa. L’arricchimento personale di ognuno risulta tale quando non è imposizione della propria sensibilità o dei propri modi di vedere la comunità, ma quando è offerta che si rivela fermento capace di far lievitare la comunione della comunità. Per questo è indispensabile l’accoglienza della comunità e delle persone, con tutte le loro qualità e con tutti i loro limiti. Se noi accettiamo solo le cose belle, le caratteristiche positive di una comunità, ciò che si accorda immediatamente con il nostro modo di essere o di pensare, costruiamo rapporti falsi. Non esistono persone, culture, tanto meno comunità, che abbiano solo pregi e nessun difetto; tutto e tutti, in quanto creature, hanno pregi e limiti/difetti. Se vogliamo costruire il Regno – e quindi evangelizzazione, fraternità, unità e comunione – bisogna fare i conti con entrambi. Penso sia questa uno dei motivi delle nostre difficoltà a vivere insieme: viviamo ancora prigionieri di meccanismi ingenui di idealizzazione e di individualismo. d. Gli ideali sono vissuti nella storia.             Tutti noi, sia che viviamo in comunità o in famiglia, siamo animati da grandi ideali. Ma siamo chiamati a fare i conti con la storia e con la dinamica evolutiva che la caratterizza. Essa ci insegna che solo progressivamente, nel divenire della vita, possiamo dare un’espressione visibile e credibile ai valori e agli ideali. E questo richiede che ci accogliamo senza riserve e senza pregiudizi, ci aiutiamo con delicatezza e grande rispetto se vogliamo rispondere alla nostra vocazione.             Vivere le fatiche dell’accoglienza reciproca, dell’andare incontro all’altro con discrezione, del coraggio della correzione fraterna data e ricevuta, della consapevolezza che la nostra crescita passa attraverso l’altro..., è la condizione che ci dispone a essere attenti, recettivi, capaci di rispondere alle provocazioni della vita che incontriamo anche nell’apostolato. Non dobbiamo desiderare convivenze in cui non ci siano problemi, ma comunità/famiglie in cui le diversità, e le tensioni che ne derivano, sono affrontate in modo evangelico, con simpatia, umorismo, disarmo, amore. Non possiamo vivere bene a compartimenti stagni. Quando noi viviamo le relazioni in un certo modo in comunità/famiglia e in un modo diverso fuori, stiamo strumentalizzando gli altri per un nostro benessere; non abbiamo ancora compreso il dono della relazione con l’altro, che cosa significhi vivere in comunità, e come l’unità e la comunione tra noi sia la prima testimonianza da rendere: vi riconosceranno da come vi amerete (cfr. Gv  13,35). e. Tensioni, conflitti, crisi: che senso hanno?             Il cammino che porta alla comunione e all’unità è accidentato, lo sappiamo bene. Difficoltà, tensioni (anche prolungate), momenti di crisi sono passaggi obbligati. Per fare spazio alla fraternità è necessario rivalutare questi momenti, cogliere la loro valenza positiva proprio in ordine al valore della comunione. La comunione ha senso proprio perché siamo diversi: la nostra diversità riconosciuta, accolta e valorizzata rivela la bellezza del piano di Dio, che vede ogni realtà creata ordinata all’Uno.             Di solito percepiamo ogni difficoltà/conflitto/tensione che interferisce con i nostri programmi come una minaccia. Presi dalla paura di non sapere che cosa fare, o di perdere il controllo della situazione, siamo portati istintivamente a scongiurare ogni eventualità di crisi. In questo modo anziché essere profeti di quella comunione e unità che sarà destino futuro dell’uomo, ci mostriamo custodi di un museo archeologico: quello delle nostre paure e rigidità infantili, che non accettiamo di mettere in questione.             Le scienze in generale ci insegnano che le crisi sono il segno di un processo di divenire in atto, hanno un ruolo positivo nel processo evolutivo, ci fanno crescere. In un organismo vivente le crisi sono normali. L’eccezione è la condizione di equilibrio, l’assenza di tensioni, i passaggi indolori. Siamo diversi per età, cultura e famiglia d’origine, estrazione sociale, educazione ricevuta, sensibilità, intelligenza, esperienze vissute, preparazione culturale...: come potrebbero non esserci difficoltà e fatiche al confronto e alla collaborazione?  È proprio il confronto e la condivisione delle singole originalità che stimola alla conversione e rende possibile la comunione. Anziché essere una penalizzazione, allora, tutti questi elementi di diversità ci aiutano a scoprire la nostra identità e il nostro futuro come singoli e come comunità, e ci richiamano a un atteggiamento di discernimento permanente. Invece di inasprire le differenze individuali e la competizione, dovremmo rivalutare l’ascolto, il silenzio, la pazienza, l’accoglienza, la valorizzazione dell’altro...! f. L’identità sta davanti a noi, nel futuro.             Quando noi parliamo di identità la tentazione è quella di guardare istintivamente indietro - la nostra storia passata, gli eventi salienti della nostra esperienza di vita, i nostri tratti caratteristici, ecc. - in modo statico e implicitamente “conservatore”. E facciamo così anche per la nostra identità di istituto consacrato, pensando che la fedeltà al carisma dipenda da quanto è già stato detto e fatto dal fondatore, o da chi è venuto prima di noi. Pensiamo, insomma, che la nostra identità è qualcosa da conservare piuttosto che da cercare  e costruire. La storia attuale, con tutta la sua complessità, ci dice che la fedeltà più impegnativa riguarda il futuro. Il passato e la tradizione non sono il riferimento assoluto, e il cammino della nostra vita non è tutto predeterminato e definibile a priori. Anche la vita consacrata segue i sentieri dell’umanità, dove tutto è in evoluzione.             Gli ideali e valori che guidano un istituto di persone consacrate sono sempre formulati e vissuti in modo provvisorio e parziale. Fedele al carisma, infatti, è chi ne permette e facilita un’espressione adeguata all’oggi: i suoi gesti esprimono un’adesione e una tensione sincera ai valori della tradizione in cui si è inserito, ma che con le sue scelte cerca di sviluppare.              L’importante è aver chiaro qual è il progetto che ci tiene insieme. È la chiarezza sul progetto che crea le basi per l’unità e la comunione e la testimonianza della comunità. Di per sé la comunione non è lo scopo ultimo della nostra vita religiosa. Lo scopo è e rimane sempre conoscere Dio, dimorare in Lui,  giungere  alla piena maturità di Cristo e godere della Vita in pienezza (cfr. Gv 13,15.17); la ricerca di unità e comunione è l’atteggiamento che ci consente di rimanere sempre aperti ad accogliere e vivere questo dono.             E noi, abbiamo chiarezza sul progetto da realizzare? g. Siamo un cantiere sempre in costruzione. Ho trovato molto bella una definizione della comunità vista come « il luogo dei passaggi verso l’amore » (J. Vanier). È vero! Fare comunione – in famiglia come in comunità – comporta passaggi decisivi per il proprio divenire persone e credenti adulti. Il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla paura alla fiducia, dal litigio all’unità, dalla menzogna alla verità, dalle teorie, dai sogni e dall’idealismo alla realtà, dalla vanagloria alla gloria di Dio... La comunità è, in sé stessa, una realtà fortemente evolutiva. È un’offerta di vita che può favorire la scoperta di sé, di ciò che si può divenire e ci si sente chiamati a essere, sia come singoli che come gruppo. La costruzione della propria identità è un processo che avviene soltanto accettando di stare di fronte all’altro, alla sua diversità, lasciandosi mettere in questione, mantenendosi in uno stato di costante ricerca. M. GRAZIA VIRDIS, Frutto in maturazione Vivere insieme chiede di essere sempre disponibili al cambiamento, e cichiama a vivere in un atteggiamento di continuo distacco da noi stessi e dalle cose, dagli affetti e dalle persone. Sembra un paradosso: per crescere e far crescere la sorella/il fratello nell’unità e nella comunione è necessario saper vivere il distacco, da intendere non come negazione della dimensione affettiva ma come attenzione a non dare a nulla e a nessuno il posto di Dio. h. Crescere è fare spazio alla Vita.             Secondo una visione dinamico-evolutiva, che è poi evangelica, ciascuno di noi nasce incompiuto e vive la propria storia camminando verso il suo compimento. E per giungere al nostro compimento abbiamo accolto la chiamata alla vita consacrata, nella comunità o in famiglia. Esse sono un aiuto, ma entrambe comportano molte fatiche. Il tempo trascorso fino a oggi in famiglia e in comunità penso ci abbia insegnato che i nostri cambiamenti non sono avvenuti per un volontaristico programma personale steso a tavolino, ma perché abbiamo dato spazio a nuove provocazioni della vita, a nuove situazioni: abbiamo permesso agli altri di spostare qualcosa dentro di noi, di modificare qualcosa di cui, forse, fino ad allora andavamo sicuri e orgogliosi. Noi cerchiamo la comunione perché crediamo che la Vita giunge a noi sempre attraverso gli altri: se da una parte richiede un atteggiamento di accoglienza e di apertura fiduciosa, dall’altra comporta che noi accettiamo la nostra insicurezza.              In altre parole, noi sappiamo entrare in comunione quando diventiamo vulnerabili, quando lasciamo cadere le nostre maschere e ci mostriamo così come siamo; quando ci lasciamo conoscere, apriamo la nostra porta, e non viviamo l’altro come un intruso, ma come una visita della grazia che vuol portarci vita. Non possiamo sapere in anticipo cosa ci chiederà e cosa ci porterà a cambiare dentro di noi. Crediamo però che certamente Dio vuole condurci sempre più in profondità alla verità di noi stessi, e infine - lo speriamo - alla Verità tutta intera. Possiamo accettare la nostra insicurezza e debolezza quando con fede abbiamo posto la nostra certezza nel Risorto, e speriamo nella potenza generatrice di vita della sua presenza in comunità.             Ci vuole coraggio per vivere tutto questo! Perché non esisto solo io con le mie sicurezze personali. Esistono anche gli altri attorno a me, e mi lanciano continui stimoli che mi mettono in questione. Se li so accogliere posso crescere e scoprire la ricchezza mia e dell’altro in ordine al compimento della nostra identità di figli di Dio: giungere alla libertà di amare come ama Dio. Se invece temo la mia insicurezza mi irrigidisco sulle mie posizioni, non accetto le provocazioni che mi portano nuova vita, e non mi trovo bene con gli altri.             Ci vuole fiducia per vivere così il rapporto fraterno in comunità/famiglia. Dare fiducia è il senso profondo dell’amore. Dio si fida dell’uomo in modo totale. Egli ha messo nelle nostre mani il mondo, il Figlio, la Chiesa, tutto... crede nella nostra capacità di portare frutto e, senza scandalizzarsi delle nostre imperfezioni e infedeltà, ci invita a fare altrettanto con i nostri fratelli.             Se proviamo seriamente a vivere questa fiducia, la nostra ricerca di comunione ci vedrà servitori del Bene che è presente nella sorella/nel fratello, forti della “speranza attiva” che ci porta a giocare tutto su ciò che l’altro ancora non è ma potrebbe divenire con l’aiuto del nostro sostegno fraterno. i. Chiamati perché peccatori, uniti perché salvati. E infine viene da chiedersi: perché mai Dio ha affidato a creature deboli come noi il Sint unum, il buon messaggio della unità e della comunione trinitaria? Cosa possiamo fare di fronte al nostro limite, alle nostre paure e debolezze così evidenti?             E se stesse proprio qui la sfida e la testimonianza della vita consacrata? Una vita insieme, camminando ogni giorno alla ricerca dell’unità e della comunione, senza scandalizzarci delle debolezze e delle povertà nostre e degli altri. Dio ci ha chiamati così come siamo... e Lui sa bene cosa ci chiede, perché non vede solo i nostri difetti ma anche i nostri talenti.             Nessuno è perfetto! Non lo erano i primi discepoli, e non lo siamo neppure noi. Con tutto il fardello della nostra debole umanità noi siamo chiamati a rendere visibile l’onnipotenza della Grazia di Dio nelle nostre fragilità e la sua sovrabbondanza proprio lì dove abbonda il nostro peccato (cfr. Rom 5,20). Mi sembra che sia questo il messaggio che papa Francesco ci sta mandando con forza e perseveranza dall’inizio del suo pontificato. Se crediamo nella buona notizia dell’amore di Dio e vogliamo viverla, nelle nostre case si dovrebbe vedere che nessuno si scandalizza se le cose non vanno sempre bene, se i programmi non riescono, se i fallimenti bussano alla nostra porta, se non ci sono i risultati previsti... perché crediamo che la Grazia sovrabbonderà anche lì dove noi leggiamo i segni del fallimento. La Grazia ci trasformerà se ci rendiamo disarmati e disponibili alla conversione, se non usiamo le nostre debolezze come giustificazioni, ma continuiamo a cercare anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia.             Allora la nostra vita diventa segno. Segno del Risorto che dà continuamente la vita a chi si rende disponibile ad accoglierla. L’accoglienza della sua volontà di comunione diventa in noi decisione di prestare a Dio le nostre mani, le labbra, il cuore... perché il suo amore trovi spazio nella nostra storia di uomini.             Smettiamola di guardarci con occhi di giudizio, di tormentarci – spesso solo a parole – con i sensi di colpa per le nostre incoerenze come consacrati.             Sarebbe molto più produttivo, proprio a livello di testimonianza, riconoscerci peccatori senza fare dei drammi, e accogliere la salvezza di Cristo ogni volta che ci troviamo vuoti e sconfitti per le nostre infedeltà e per le nostre resistenze. Chi sa mettersi in questione fa circolare lo Spirito e cammina con i suoi fratelli, libero di esprimere in forme sempre nuove la sua comunione con il cuore di Cristo, in un atteggiamento di conversione permanente. La gente che ci guarda, allora,  non avrà più paura di Dio se potrà vedere noi che, ogni volta che ci troviamo a terra, ci rialziamo prontamente con il sorriso di chi sa di essere amato e salvato, e può riconoscere questa salvezza nel gesto accogliente e riconciliante della sorella/del fratello. M. GRAZIA VIRDIS, Cuore di luce  P. Enzo Brena scj Domande per la riflessione/condivisione · Quali ostacoli/resistenze sperimentiamo più frequentemente nello stabilire tra noi relazioni di comunione? · Se è vero che siamo sempre in crescita, che cosa concretamente ci frena/ci impedisce di accogliere gli stimoli quotidiani alla nostra conversione/crescita? · Il più grande ostacolo alla libertà, alla comunione e alla gioia di vivere siamo noi stessi! Che cosa mi sono proposto personalmente per stare in un cammino di libertà evangelica? Che cosa suggerisco e propongo alla comunità? · Un grande ostacolo all’amore-comunione è il legalismo, per il quale contano più le regole (e le abitudini personali!) che il Vangelo! Che cosa stiamo facendo e come ci stiamo aiutando su questo punto? Quanto la nostra via è vissuta con il cuore aperto? · Come percepisco il mio limite personale? Quanto vigilo sul pericolo di una vita vissuta in modo “pelagiano” o “gnostico”? Quanto credo nella grazia e nella salvezza gratuita di Dio? e quanto la vivo nei confronti degli altri?
come vivere la nostra secolaritÀ oggi alla luce dei cambiamenti sociali ed ecclesiali
 
                 (Seconda parte ) Toccare con mano, sullo stile del samaritano… (…presentando il volto della misericordia e della tenerezza). Ha a che fare con la missionarietà. Sempre nel discorso consegnato all’Udienza con i Responsabili degli Istituti secolari italiani papa Francesco afferma: “In forza dell’amore di Dio che avete incontrato e conosciuto, siete capaci di vicinanza e di tenerezza. Così potete essere tanto vicini da toccare l’altro, le sue ferite e le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è espressione di una cura che cancella ogni distanza. Come il Samaritano che passò accanto e vide e ebbe compassione. E’ qui il movimento a cui vi impegna la vostra vocazione: passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni persona che incontrate, perché il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale che vi chiama ad uno stare consapevole, attento, che sa scorgere, vedere e toccare la carne del fratello”. In EG al n.49 scriveva: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare”. Considerazioni. Anche la preoccupazione per le vicende prettamente sociali rientra nello spirito missionario della Chiesa di papa Bergoglio, perché il Vangelo è per tutti e, se qualcuno può essere privilegiato da questo movimento ‘in uscita’, questi deve essere il povero, colui che è stato ferito nella battaglia della vita e cerca qualcuno che gli sia prossimo. La missionarietà è insita nella consacrazione secolare: la consacrazione, dicevamo, consiste nel dedicarsi al progetto di Dio sulla storia e la secolarità consiste nell’abitarla, condividendone “gioie e speranze, tristezze e angosce”. Da questa posizione, che per noi costituisce un vero e proprio stato di vita, si impone la testimonianza del Vangelo. La profezia sta nella chiamata a soccorrere senza giudicare, a evidenziare il positivo all’interno di qualsiasi situazione, a “non aver paura della tenerezza”, a rivalutare tutte quelle virtù umane che rendono vero ogni tipo di rapporto e solidale l’impegno per un mondo nuovo. … nella povertà, gratuità, disponibilità Se la radice della testimonianza è l’amore gratuito di Dio e la scelta di Cristo, il segno caratteristico è la gratuità, la semplicità, il disinteresse, la pace. Questo atteggiamento spirituale di povertà-gratuità ci libera da quell’ansia di dover fare, organizzare, proporre, convertire… per verificarci su come viviamo noi la fede, l’amore, il perdono, la pace, il rapporto con le persone, la condivisione con chi soffre. Spesso il fare per gli altri diventa una scusa per non verificare noi stesse. Un altro aspetto della povertà riguarda i mezzi. Il grande, unico mezzo scelto da Gesù per la missione è la persona, quelle persone concrete che lo seguivano. Possiamo anche usare mezzi moderni, sussidi aggiornati per attirare la gente, ma il vero, unico mezzo della missione siamo noi, la nostra persona, quello che noi siamo e cerchiamo di diventare. Gesù non si è servito dei grandi mezzi, anche se ne aveva la possibilità: non ha chiamato studiosi ed esperti, che pullulavano anche a quel tempo; non ha costruito scuole bibliche o un grande tempio alternativo a quelli di Gerusalemme e del Garizim. Ha scelto delle persone e le ha mandate. Ha stabilito con esse un rapporto personale e le ha mandate a creare, a loro volta, dei rapporti personali (di casa in casa), portando un primo annuncio essenziale: la pace, l’amore di Dio che è Padre, la fiducia, la speranza. … nell’ordinarietà La secolarità consacrata è l’esperienza di donne e di uomini che amano la vita, che vivono con gioia la loro esperienza familiare e sociale, le relazioni con gli amici e con i vicini di casa, la politica e la professione. I laici consacrati sono persone che sanno apprezzare l’umanità in tutte le sue dimensioni: affetti, responsabilità, fatica, amore; che sanno dare un senso alle esperienze difficili che segnano l’esistenza di tutti: la malattia, il dolore, il limite, la solitudine, la morte. L’ordinarietà è la paziente assimilazione delle condizioni comuni del vivere: i linguaggi della gente comune, i linguaggi familiari, i ritmi vitali, le sfumature delle situazioni, i conflitti quotidiani, le pene consuete, le fatiche di chi ci vive accanto, gli aspetti sociali e individuali del vivere. L’ordinarietà vissuta in pienezza esprime lo spessore del nostro radicarci nella storia. Una secolarità vera detesta gli artifici, i privilegi, le corsie preferenziali, quelle che magari portano ad avere un posto di primo piano, un trattamento migliore, nell’ambito dei ruoli e delle responsabilità che si assumono.v La secolarità consacrata ci colloca nelle “condizioni ordinarie della vita”. Dovremmo tentare di non cadere nello schematismo: ci sono condizioni ordinarie e condizioni straordinarie, dove l’accento sulla straordinarietà assume il tono di una maggiore valorizzazione…..quasi che l’ordinarietà fosse condizione di serie B. Allora potremmo chiederci: “Che cosa dire della nostra disponibilità al nascondimento, della discrezione con cui viviamo in mezzo agli altri? Che cosa dire del nostro modo di vivere le condizioni ordinarie? Come fare perché la nostra vita non si trasformi mai in una ostentazione? In un’esibizione della nostra bravura? Rivalutare il senso di appartenenza… (…alla propria comunità vocazionale, dove si sperimenta l’essere Chiesa povera per i poveri e si diventa “antenne”). Ha a che fare con la fraternità. Il discorso consegnato dal Papa all’Udienza del 10 maggio 2014 conteneva anche questa affermazione: “E’ urgente rivalutare il senso di appartenenza alla vostra comunità vocazionale che, proprio perché non si fonda su una vita comune, trova i suoi punti di forza nel carisma. Per questo, se ognuno di voi è per gli altri una possibilità preziosa di incontro con Dio, si tratta di riscoprire la responsabilità di essere profezia come comunità, di ricercare insieme, con umiltà e con pazienza, una parola di senso per il Paese e per la Chiesa, e di testimoniarla con semplicità. Voi siete come antenne pronte a cogliere i germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e potete aiutare la comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti”. EG ai nn.91-92 approfondisce: “E’ necessario aiutare a riconoscere che l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. E’ anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità. (…) Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un ‘piccolo gregge’ (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!”. Considerazioni. Le relazioni costituiscono il tessuto su cui ricamare la ricchezza dei nostri carismi. Senza relazioni tutto si sfalda. E parlo delle relazioni esistenziali nei diversi ambiti di vita e di lavoro, nelle diverse situazioni psicologiche e sociali, in famiglia, nella comunità cristiana e in quella civile, relazioni di cui l’esperienza del gruppo diventa autentico “laboratorio”. Le ricadute più significative sono quelle del perdono, della collaborazione, del discernimento comunitario, della fraternità. La fraternità porta a stare sullo stesso piano, non ammette superiorità o sudditanza, richiama il concetto di creaturalità, porta ad accogliere povertà e fragilità proprie ed altrui, motiva lo scambio non solo in termini di intesa psicologica, ma soprattutto di condivisione della fede e degli impegni. La comunità vive delle esperienze di ciascuno dei suoi membri, gioisce e soffre con loro e attraverso queste esperienze viene a contatto con il mondo e con la storia, imparando a cogliere i segni della presenza del Risorto e irradiando il gusto dell’appartenenza. La profezia sta nella chiamata a vivere le relazioni interpersonali, soprattutto all’interno dei nostri gruppi, non come una circostanza ma come il luogo dell’ascolto, del dono di sé, della ricerca e della testimonianza della propria identità. Trasmettere la gioia… (…dell’incontro con Cristo e della vicinanza ai fratelli). Ha a che fare con la spiritualità. Sempre nel discorso del 10 maggio leggiamo: “Insieme ed inviati, anche quando siete soli, perché la consacrazione fa di voi una scintilla viva di Chiesa. Sempre in cammino con quella virtù che è una virtù pellegrina: la gioia”. Del tema della gioia è intrisa tutta l’EG. Si apre così: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. (…) In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (n.1). “Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore” (n.268). Considerazioni. Non è un generico invito alla gioia, ma la sottolineatura che la gioia è, nello stesso tempo, contenuto e forma dell’annuncio. La consacrazione secolare mette in comunione piena con la sorgente della gioia, che è Cristo Gesù e il suo Vangelo, e nello stesso tempo domanda una testimonianza che passa più attraverso la vita che la parola. Se i nostri occhi non sprizzano gioia vuol dire che non abbiamo incontrato veramente il Signore e la nostra fede appare stanca, faticosa, senza attrazione. Acutamente Paolo VI, nell’esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975) – uno dei testi più belli del suo magistero pastorale – afferma: “Ci sarebbe bisogno di un paziente sforzo di educazione, per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane, che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Molto spesso, partendo dalle gioie naturali, il Cristo ha annunciato il regno di Dio” (n.1). Nelle relazioni secolari, le più diverse, il primo impatto è dato proprio dalla capacità di irradiare serenità, fiducia, entusiasmo. La comunicazione della fede ha come obiettivo la pienezza della vita, del suo senso, della sua realizzazione, della sua felicità. La gioia del cristiano non è frutto della fuga dalle problematiche del quotidiano, ma certezza, anche nella prova, dell’amore del Signore che ci raggiunge, ci coinvolge e ci salva. Così testimoniare è la gioia di poter annunciare quello che, personalmente, ci dà vita e giovinezza in cuore. Anche quando i 20 anni si sono o si saranno moltiplicati per 4 e oltre. Testimoniare è più forte delle mie fatiche fisiche, morali e spirituali. Vi auguro di conservare sempre questo atteggiamento di andare oltre, non solo oltre, ma oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia… Lo stile della nostra vocazione è l’assumere questa dimensione dello stare dentro, dello stare accanto, del non appartarsi nel vivere la vita cristiana, del guardare al mondo come realtà teologica. Questa dimensione profonda, direi strutturale, ha all’origine la disponibilità a mettersi accanto, ad accogliere, a condividere ciò che è nostro con chi è in condizioni di minori risorse, a caricarsi dei pesi, a farsi prossimo, a prendersi cura sul modello del buon Pastore e del Samaritano. Che dire di noi? È vero, respiriamo tutti noi un clima di conflittualità sociale che pervade anche noi e i nostri ambienti, in cui regnano le spigolosità, le rigidità e le fatiche relazionali, che impediscono di fatto il dialogo sereno, la difesa intransigente delle proprie posizioni, precludendo un ascolto sereno dell’altro. Un clima che gradualmente ci sospinge nell’insufficiente dialogo e così non favorisce l’incontro e l’interscambio. Ma tali constatazioni ci dicono che siamo chiamate a fare un lavoro quotidiano di discernimento, imparando a leggere la cifra dell’attualità e riscoprendo i segni dello Spirito in tutto, mediante una lettura ordinaria dei segni dei tempi. «È necessario cogliere l’emergenza della vita – scrive un teologo italiano, Carlo Molari, morto da poco – le forme nuove che essa cerca di esprimere. Dobbiamo ricordare però che i segni dei tempi emergono sempre in ambiti di frontiera della vita e della storia quindi, marginali e periferici. E’ tuttavia attraverso queste frontiere che si apre un cammino verso i nuovi traguardi». Dunque, è su questi crinali del luogo, del tempo e della storia, che le nostre esperienze possono compenetrarsi e aiutarsi reciprocamente con una fecondità di vita e di pensiero. Maria Rosa Zamboni
come vivere la nostra secolarità oggi alla luce dei cambiamenti sociali ed ecclesiali
 
(prima parte)  Premessa E’ importante una premessa. In che contesto noi viviamo? Il contesto ecclesiale in cui si pone questo nostro momento di riflessione è caratterizzato dallo svolgimento del Sinodo sulla Sinodalità. Il contesto socio-culturale, invece, è segnato dalla pandemia e dalla guerra in Europa, che si aggiunge alle numerose guerre in atto e dalla crisi economica, divenuta presto anche sociale ed etica, capace com’è stata di mettere a nudo le diseguaglianze, gli abusi di potere e i comportamenti immorali di singoli cittadini e della stessa classe dirigente. In Italia è diminuita la fiducia nella partecipazione, ha preso piede una forma strisciante di egoistico “fai da te” da parte di singoli e di gruppi, la disperazione si palesa nei suicidi, nelle depressioni, in diverse forme di violenza, anche privata. Per quanto attiene il carisma della secolarità consacrata rimane confermato lo scarso impatto che esso ha nella realtà ecclesiale e a livello di rilevanza sociale. Nella Chiesa non è più riconosciuto come una novità e, dato il limitato numero dei membri e la loro età avanzata, non incide significativamente nell’elaborazione della sua identità e della sua missione. Nella società la mancanza di fiducia nelle istituzioni ha fatto crescere il sospetto anche nei confronti delle persone impegnate cristianamente, fatte salvo quelle che operano nel campo del volontariato e della carità. Il luogo della santificazione personale di noi laici consacrati è, senza dubbio, il mondo con quello che implica l’essere immersi nelle sue vicende e nella storia. Il modo in cui esserci esige un continuo discernimento secondo la Parola di Dio e il mistero della vita di Gesù di Nazaret, prima della sua vita pubblica, a cui far riferimento per vivere in pienezza la vocazione secolare. L’impegno secolare trova la sua massima espressione nel lavoro (come impegno, esecuzione, competenza, esercizio professionale e assolvimento del comando divino di assoggettare le cose). Accanto ad esso e non di importanza secondaria sono le attività di “pubblico servizio”, sia in ambito associativo che attraverso un impegno diretto in politica. E’ edificante la testimonianza del come i primi membri degli Istituti secolari siano riusciti a conciliare gli impegni anche onerosi, sotto l’aspetto della presenza secolare nei vari ambiti, con fedeltà assoluta alla preghiera, fondamentale per ogni vocazione. Quale testimonianza chiede a noi il Signore? E’ la domanda sempre attuale, che ci poniamo per verificare se il nostro cristianesimo nella vita ordinaria è rivolto tutto alla costruzione del “Regno”, senza riserve e ripensamenti. Il cammino compiuto in questi 75 anni dagli Istituti secolari, dalla Provida Mater Ecclesia a oggi, sia a livello di riflessione teologica e magisteriale che a livello di esperienza di vita, ci permette di affrontare l’argomento di questo incontro tenendo sullo sfondo gli elementi prima ricordati. Oggi però si stagliano in primo piano alcune suggestioni di grande attualità, sottolineate dal magistero di papa Francesco, che conferiscono agli Istituti secolari e al loro carisma una rinnovata connotazione profetica. Basti citare alcune definizioni che il papa ha dato degli Istituti secolari all’Udienza concessa ai Responsabili italiani il 10 maggio 2014. A partire da una lettura attenta del suo discorso mi sembra si possano individuare 5 suggestioni. Custodire la contemplazione… … (verso il Signore e nei confronti del mondo). Ha a che fare con la consacrazione. L’espressione è stata usata da papa Francesco nella conversazione libera. Precisamente egli ha affermato: “E da quel tempo (il tempo della Provida Mater) fino ad ora è tanto grande il bene che voi fate nella Chiesa, con coraggio perché c’è bisogno di coraggio per vivere nel mondo (…). Tutti i giorni, fare la vita di una persona che vive nel mondo, e nello stesso tempo custodire la contemplazione, questa dimensione contemplativa verso il Signore e anche nei confronti del mondo, contemplare la realtà, come contemplare le bellezze del mondo, e anche i grossi peccati della società, le deviazioni, tutte queste cose, e sempre in tensione spirituale …” Nella Evangelii Gaudium (EG) al n. 264 aveva scritto: “E’ urgente recuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri”. Vengono spontanee alcune considerazioni. Innanzitutto, va focalizzato l’oggetto primario della nostra consacrazione che è il Signore Gesù. È al suo amore che noi aderiamo, alla sua chiamata che noi diciamo il nostro ‘sì’; è del suo progetto che noi ci mettiamo a servizio. La stessa professione dei voti, quindi, va nel senso di quell’incontro personale con Gesù che ci mette in movimento dietro di lui dentro la storia. Va poi specificato che, intesa in questo senso, la consacrazione non porta fuori, non distrae, non separa dalla realtà mondana, positiva o negativa che essa sia, ma offre piuttosto una prospettiva pasquale, di redenzione e di speranza. Addirittura, la relazione personale con Cristo passa attraverso le vicende umane e si sostanzia di tutto ciò che noi portiamo della nostra esistenza concreta. Avere uno spirito contemplativo significa allora dedicarsi consapevolmente a tutto ciò che è bene, che rende migliore l’uomo e la società, che qualifica la storia come ‘storia di salvezza’. Custodire la contemplazione è proprio di chi, a diretto contatto con il mondo, ne conosce le dinamiche e vi incarna la fede attraverso il suo vissuto. La consacrazione ci chiede di essere, in mezzo agli altri, sacramento vivo di Dio. Noi siamo chiamate a manifestare questo primato di Dio, a proclamare che Lui è al centro delle nostre vite e l’unico vero significato della nostra esistenza. A questo scopo, mettiamo a disposizione la visibilità, nella nostra umanità, del Dio silenzioso, nascosto, del Dio “debole”, in modo che ancora una volta tra gli uomini e le donne del nostro tempo possano rendersi visibili l’amore fraterno di Cristo, la paternità del Padre, la sua misericordia, la sua tenerezza, il suo perdono, la sua speranza … La profezia sta nella chiamata a tenere sempre uniti fede e vita, dimensione spirituale e vissuto concreto, celebrazione dei sacramenti e impegno storico…o, ancora meglio, il nostro essere nel mondo e il nostro essere di Dio senza che questo costituisca dicotomia ma generi continuità e si configuri come preannuncio del Regno. Camminare per le strade del mondo e abitare le periferie… (… in uscita, andare oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia…) Ha a che fare con la secolarità. Anche questa espressione è stata usata dal Papa all’Udienza, in questo preciso contesto: “Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto e zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze. La passione missionaria, la gioia dell’incontro con Cristo che vi spinge a condividere con gli altri la bellezza della fede, allontana il rischio di restare bloccati nell’individualismo”. Nella EG al n.20 aveva scritto: “Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo”. E al n.46: “La Chiesa ‘in uscita’ è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà”. Anche qui alcune considerazioni. La Chiesa vive nel mondo e in dialogo con esso. Il Signore Gesù ha voluto la Chiesa come sacramento della sua presenza di risorto nella storia. Ora Cristo continua “a prendere l’iniziativa”, a “precedere nell’amore, (come spiega il n.24 dell’EG) e quindi la Chiesa è chiamata a “coinvolgersi” (“La comunità evangelizzatrice mediante opere e gesti si mette nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana…”), ad “accompagnare” (“Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. Usa molta pazienza ed evita di non tener conto dei limiti…”), a “fruttificare” “Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti e incompiuti…”) e a “festeggiare” (“Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti (…) si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene…”). Sono 4 verbi della secolarità, cioè di una presenza operosa ed incisiva in ogni angolo di umanità dove risuonano più forti gli interrogativi degli uomini e dei popoli. La Chiesa abita le periferie attraverso di noi che, per vocazione, siamo chiamati a restare “in saeculo” e ad agire “con i mezzi che sono propri del mondo” senza alcuna distinzione che non sia la testimonianza di fedeltà al Vangelo che connota le nostre scelte e il conseguente stile di vita. Secolarità è anche andare, non restare bloccate sulle proprie posizioni e le proprie sicurezze. Richiede la capacità di porsi delle domande e non solo di dare delle risposte, rischiando nella ricerca, ascoltando la realtà della vita prima di stigmatizzarla con delle norme. La profezia sta nella chiamata a non temere nessun luogo e nessuna situazione, anzi a leggere e a collaborare nel compimento della storia della salvezza proprio a partire da lì, dove la persona è al limite dell’esclusione, soffre l’indifferenza, è svuotata della sua dignità. “Voi fate parte di quella Chiesa povera e in uscita che sogno!”: ci ha detto papa Francesco. Ci sono tante questioni che ci spiazzano, nella vita, nella fede e nella Chiesa. Camminare con responsabilità significa rifiutare ogni soluzione facile e ogni scorciatoia, per percorrere i sentieri più ardui del pensiero, della ricerca e del dialogo. Qui è sempre attuale l’immagine che ci ha affidato Paolo VI: essere laboratori sperimentali… con tutto ciò che questa immagine significa… Maria Rosa Zamboni
incontro giovani consacrate
 
Nei giorni 25 e 26 giugno 2022 si è realizzato l’incontro online delle giovani consacrate della CM sulla piattaforma Meet. Per il Consiglio Centrale hanno partecipato Graciela Magaldi, Serafina Ribeiro, Amelia Gabriel Sitoe, Gloria Neto e Marcellina Mudji. Per l’Italia: Santina e Orielda, per il Cile Teresa Pozo e Ely, per l’Argentina Irma, Rosa e Andrea, per l’Indonesia Lucy, per il Portogallo Justina, per il Mozambico Anna Maria, Helena, Julieta, Bina, Dalaina, Isabel, Joana, Ilda, Melita, per la Guinea Bissau Antonieta e Ivone. Tenendo conto della differenza oraria dei vari paesi si è potuto lavorare solamente alcune ore della giornata. Il primo giorno è iniziato con un momento di preghiera animato dalla realtà mozambicana. Graciela ha aperto l’incontro rivolgendo un saluto ed un augurio a tutte le partecipanti. Poi si è dato spazio alla presentazione di ciascuna. Questo primo tempo l’avevamo programmato proprio per questo scopo così da lasciare a ciascuna la possibilità di farsi conoscere un po’ meglio. Alla fine con un canto mozambicano abbiamo terminato questo prima “giornata”. Il giorno seguente si è aperto con la preghiera animata dall’America Latina. In seguito, è stata data la parola a Maria Rosa Zamboni, membro dell’Istituto Secolare delle “Spigolatrici della Chiesa”. Maria Rosa è conosciuta dalla CM perché altre volte è venuta ad aiutarci nei nostri incontri. Il tema che ci ha presentato e che noi avevamo proposto era: “Come vivere la nostra secolarità oggi alla luce dei cambiamenti sociali ed ecclesiali”. Ecco un piccolo riassunto dei punti trattati: Maria Rosa è partita da una premessa. In che contesto viviamo? Nel contesto ecclesiale e nel contesto socioculturale. Ha presentato alcuni suggerimenti di grande attualità, sottolineate dal magistero di Papa Francesco, che danno agli Istituti secolari ed al loro carisma una rinnovata connotazione profetica. 1. Custodire la contemplazione... (verso il Signore e nei confronti del mondo)... Avere uno spirito contemplativo significa allora dedicarsi consapevolmente a tutto ciò che è bene, che rende migliore l’uomo e la società, che qualifica la storia come “storia della salvezza”. 2. Camminare per le strade del mondo e abitare le periferie... (... in uscita, andare oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia...). La Chiesa è chiamata a “coinvolgersi”, “accompagnare”, “fruttificare e celebrare”. Questi sono i quattro verbi della secolarità. 3. Toccare con mano, sullo stile del buon samaritano... ha a che fare con la missionarietà... passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni persona che incontrate... 4. ... nella povertà, gratuità, disponibilità... questi sono i segni caratteristici della testimonianza; la gratuità, la semplicità, il disinteresse e la pace. 5. ... nell’ordinarietà, la secolarità consacrata ci colloca nelle “condizioni ordinarie della vita”. 6. Rivalutare il senso di appartenenza... (alla propria comunità vocazionale, dove si sperimenta l’essere Chiesa povera per i poveri e si diventa “antenne”). Ha a che fare con la fraternità. Questa ci porta ad accogliere la povertà e le fragilità proprie ed altrui, motiva lo scambio non solo in termini di intesa psicologica, ma soprattutto di condivisione della fede e degli impegni. 7. Trasmettere la gioia … (... dell’incontro con Cristo e della vicinanza ai fratelli). Ha a che fare con la spiritualità. La gioia è, nello stesso tempo, contenuto e forma dell’annuncio. La gioia del cristiano è la certezza, anche nella prova, dell’amore del Signore che ci raggiunge, ci coinvolge, ci salva. Alla fine di questa bellissima riflessione, ci è stato dato un tempo per rileggere e riflettere sul materiale esposto. Poi, in gruppo o individualmente si è fatto una dinamica scritta: un acrostico dalla parola “Compagnia Missionaria” letta dall’alto in basso (in verticale) e da ogni lettera iniziale si doveva comporre un’altra parola che facesse riferimento al tema ascoltato o ad altre parole simili.  La condivisione è stata molto positiva perché si è scoperto la grandezza e profondità di aver trovato parole simili ma anche la novità e creatività di tante altre. Un canto di lode e gratitudine ha chiuso la giornata. Rendiamo grazie al Signore e alla Vergine Maria per averci accompagnato in questi giorni; si è sentita la presenza dello Spirito Santo che ha operato nel cuore di ogni missionaria. Irma, Orielda, Santina e Mudji ACROSTICO COMPAGNIA MISSIONARIA C Cristo, carisma, comunità, cura, confidare, consacrazione, camminare, collaborare, contesto, contemplare, coraggio, condivisione, costruzione del regno, compagnia, chiesa, custodiamo olio di missionari età, coinvolgersi, comunione, celebrare, custodire. O oltre ed in mezzo, obbedienza, oblazione, offerta, obiettivo. M mansuetudine, misericordia, mondo, modello, meglio, manifestiamo, missione. P preghiera, pazienza, profezia, presenza, povertà, Parola, professionalità, periferie, passione, prossimità, problematiche del quotidiano, non fuga ma certezza, partecipazione. A Amore, annunciare, aiutarsi reciprocamente, attualizzare, appartenenza, abitare, armonia, accompagnare, assumere, apertura. g giocarci tutto, gioia, gratuità, n nascere, necessità, natura, non perdere lo slancio. I infiammare, imperfetto, iniziative, impatto, impegno, immergersi nelle vicende e nella storia, istituto, imparando a leggere la cifra dell’attualità, internazionalità. A Ascoltare, allegria, amore, affetto, agire, attive, attrazione, accogliere. M missionarietà, missione, missionaria, mezzi, unico mezzo della missione siamo noi, mondo,misericordia, marginalizzazione, Maria. I Incontrarsi, impulso, inclinarsi, implacabile, impatto, Istituto, iniziativa, identità, inculturazione, identità secolare. S Statuto, storia, samaritano, sale, sinodalità, sacramenti, santità, società, secolarità, semplicità, significativo, sacrificio. S Sfide, significato, samaritano, sognare, serenità, salvezza, santificare, servizio, solidarietà. I invocare lo Spirito, Istituto Secolare, interiorità, imparare a incontrarsi con gli altri. O Ordinarietà della vita, Onnipotente, organizzare, osservare, offerta, opzioni. N Noi CM, naturalezza, necessario, novità, nascondimento, nostro, navigare. A Amore del Signore che ci coinvolge, assumere, agire, apprezzare, affrontare le difficoltà con speranza. R Regno, costruzione del regno senza riserve e senza ripensamenti, resistere, responsabilità, relazione, realistico, rigore, realtà, recuperare, risorto, rinascere, recuperiamo immagine di Dio, redenzione, radicalità, realtà teologica, regolamento di vita. I Incorporare, ispirazione, interiore, i linguaggi della gente comune, i ritmi vitali, i conflitti quotidiani, incontro. A augurio, andare oltre e in mezzo, amore del Signore che ci raggiunge, ci coinvolge e ci salva, antenne, allegria di vivere.
noi cm
 
Profeti di PACE Questa è la mia riflessione generale su alcuni temi che abbiamo affrontato nei nostri ritiri con Santina, basati sulla “Lettera programmatica” (2019-2025). Quanto ho maturato e scoperto è stato soprattutto riconoscere che la mia vita in questi anni si è arricchita attraverso la formazione, l’internazionalità e il NOI CM. La formazione ha rafforzato e chiarito la mia vita e il mio futuro. Ho sentito fortemente il valore della solidarietà e la forza dell’unione tra noi che guida i miei passi. Considero la preghiera come il grande pilastro che sostiene la mia vita e mi dà la forza di “osare” camminare con Gesù. In questo cammino ho ricevuto molto dalla fraternità e dall’amore che viene non solo dal gruppo di appartenenza ma anche dalla realtà internazionale che come Istituto stiamo vivendo. Anch’io nel mio piccolo cerco di fare la mia parte donando il mio tempo, energie e cuore per rafforzare questa comunione tra noi. Sento che tutto questo ci fa crescere nel “NOI CM” soprattutto quando ci prendiamo cura le une delle altre, sia durante gli incontri sia quando siamo sole e immerse nelle nostre attività. Il mio impegno è quello di completare in me quel che ancora mi manca per diventare un vero testimone CM. Sento che conoscere e vivere la nostra spiritualità nel concreto della vita è una cosa importante e vitale. Con questo sguardo universale vedo in tutti i membri da CM l’opportunità di diventare testimoni dell’amore e questo lo si può fare se cerchiamo di essere vicini a Dio, in maniera che sia Lui il nostro sostegno, soprattutto nei momenti in cui siamo chiamate a prendere decisioni. Il mio sogno è che ogni membro CM nella sua vita quotidiana sia paziente, disposto ad ascoltare, pronto ad aiutare, rispettandosi a vicenda e diffondendo amore. Nel mio ambiente di lavoro ho scoperto che può essere un segno profetico: l’ essere pazienti, non giudicare immediatamente qualcosa che succede e ci crea disorientamento; dovremmo essere disposti ad ascoltare le varie parti. Avere una coscienza sensibile per rispettare gli altri. In poche parole, essere profeti di PACE! In questo atteggiamento deve guidarci e sostenerci la Parola di Dio e lo Statuto. Personalmente, ritengo importante avere anche una certa padronanza delle tecnologie, delle informazioni e delle lingue straniere. Anche questo è un aspetto formativo per la nostra vita che ci aiuta ad inserirci nella realtà del mondo, nei problemi che vivono gli altri paesi e stare dentro il mondo in maniera attiva e non come ombre. Questo si concretizza se sviluppiamo in noi il senso di appartenenza alla CM e questo significa prestare attenzione a tutti i suoi sviluppi e progressi. Ciò che ci è richiesto e dobbiamo sviluppare è la disponibilità ad “aprirsi al nuovo” sapendo accogliere attraverso i nostri suggerimenti le cose positive e anche le critiche. Agustina Dwi Susanti Condividere gratitudine e gioia rafforzandoci a vicenda Prima di tutto, vorrei esprimere il mio grazie e la mia profonda riconoscenza al Sacro Cuore di Gesù per la Sua protezione, sostegno, guida e benedizioni che ha dato finora alla mia vita. Sento che Dio ha usato alcuni valori per plasmare la mia vita, attraverso la mia famiglia e la CM come: la speranza, l'onestà, l'amore, la fratellanza, la partecipazione, la solidarietà, l'apertura, la gioia, la pace, l'impegno, la pazienza, l'umiltà e tanti altri. Tutte queste cose belle hanno colorato il cammino della mia vita, mi hanno fatto vivere e crescere. Sono anche molto consapevole di tutte le debolezze e i limiti che esistono dentro di me. Tuttavia, non considero queste debolezze e limiti come fallimenti, ma li accetto invece come una "benedizione" nella lotta della mia vita quotidiana. Questo ha creato dentro di me una nuova capacità di guardare gli avvenimenti, grandi e piccoli, con più serenità. Se non si è coscienti dei difetti e debolezze che ci accompagnano non si può crescere oppure cresceremmo solo in parte. Imparare dai miei difetti mi ha reso una persona che affida esclusivamente a Dio la sua vita. Sono solo una “piccola matita che Dio sta usando”. Insieme ai punti di forza e di debolezza che esistono dentro di me, ho trovato la parola che mi ha dato sostegno "Amore". Anche la speranza è molto necessaria in questo cammino della vita perché fa scaturire la bontà di Dio che diventa luce nelle tenebre e guida della vita quotidiana. Per l’internazionalità: sono grata di poter conoscere altre culture con la loro unicità, questo è un dono di Dio. Quello che sto cercando di riflettere a livello CM è che viviamo in diverse culture ricche di caratteristiche locali; quindi, la cosa positiva che possiamo offrirci è l'apertura per spiegare chiaramente la sua identità ed accettare, valorizzare le altre culture nel rispetto reciproco. In questo momento tutto quello che posso fare è la comunione nella preghiera per le missioni - progetti attuali e futuri. “ Noi CM”: ci riferiamo a una famiglia, ovvero siamo una famiglia. Una famiglia che vuole essere un solo cuore, un solo sentire, una condivisione in tutti gli aspetti. Noi come famiglia siamo stati formati attraverso un lungo processo, come un viaggio, con dinamiche di vita straordinarie. Questo processo di vita ha invaso ogni nostra realtà CM passando da una persona all’altra, da una generazione all’altra. Sento di appartenere a questa famiglia: la famiglia di “Betania”, il luogo dove Gesù ha sempre desiderato andare. Nella mia vita, nel mio piccolo, ho avuto diverse possibilità per costruire questa Betania dentro di me e fuori di me... Oggi vivo questa realtà dell'amore di Dio nella famiglia di Betania nel mio lavoro quotidiano, presentandomi come missionaria offrendo uno spazio concreto della mia casa ai bambini (e qui svolgo il mio lavoro) alle famiglie, ai genitori, ai giovani che chiedono speranza. Attraverso questa famiglia di Betania (ho così chiamato questo spazio), presento spesso la nostra realtà CM: ai genitori, ai giovani del quartiere, della zona e a vari gruppi della mia parrocchia, dove aiuto anche per la pastorale. Questo stare insieme costruisce speranza, aiuta le persone ad avere pazienza e coraggio nella situazione difficile che oggi stiamo vivendo. Anche l'incontro di preghiera che organizziamo periodicamente come CM con gli amici e colleghi di lavoro è molto utile per condividere gratitudine, gioia e rafforzarsi a vicenda. In questo momento sto gestendo alcune difficoltà che a volte mi rendono preoccupata e ansiosa… situazioni che a volte confondono … Il “Noi CM”, il fare Betania con i nostri fratelli mi rinnovano la forza e speranza che viene da Dio e la volontà di continuare il cammino cercando cose positive e buone per la vita. Sì, ho ancora speranza di fare cose positive e buone nella mia vita. Antonia Theresia Una guida nelle “giuste” decisioni Sono convinta che la formazione è un elemento essenziale non solo per la mia vita ma anche per la vitalità dell’Istituto. La mia riflessione mi riporta agli anni trascorsi della mia vita, all'ambiente in cui sono cresciuta, al gruppo, all’Istituto, per vedere come ho vissuto i valori fino ad oggi. Dopo aver riletto la parte che parla della internazionalità, ho preso in mano la preghiera che come CM rivolgiamo a S. Giuseppe, nostro protettore. All’inizio del nostro cammino in Indonesia ci è stata consegnata e tradotta per poterlo invocare spesso … Ogni volta che lo prego e sento parole toccanti, mi sento contenta di aver incontrato la Compagnia Missionaria. In questa preghiera si dice chiaramente e si chiede al Padre, attraverso San Giuseppe, di “mettere sul nostro cammino persone giuste per crescere meglio” ossia una guida nelle giuste decisioni. Ho legato questa riflessione alle tante sfide di oggi, alle tante decisioni (piccole o grandi) che ci vengono chieste nel nostro quotidiano. Come S. Giuseppe abbiamo davvero bisogno di silenzio e del suo aiuto. Chiediamo sempre nella preghiera il coraggio, la saggezza e l’incontro con le persone giuste, affinché nel nostro cammino possiamo crescere adeguatamente. In questo aspetto ho sentito fortemente la sua guida e presenza! Riconosco la bellezza dello stare insieme e insieme come CM sparsa in vari luoghi: Italia, Portogallo, Cile, Argentina, Mozambico e Guinea Bissau. Credo che ogni luogo in cui viviamo e ci incontriamo diventi un supporto straordinario per continuare a crescere, sia nei momenti belli come nei momenti faticosi. Sempre e in ogni avvenimento sento di essere CM vicina a tutti. Quali valori mi sono stati trasmessi? Molti sono i valori che ci sono stati tramandati e che cerco sempre di integrarli nella mia vita: lo stare insieme, la sensibilità, responsabilità, coinvolgimento, partecipazione, senso di appartenenza, indipendenza, sollecitudine per i deboli, generosità, perdono, amore, accettazione di sé, fiducia … Nella riflessione che insieme abbiamo fatto ho raccolto questo lungo elenco di valori e sento che ognuno di essi guidano il mio cammino anche oggi e li ritrovo nella vita di tutta la CM. Oggi riconosco di essere cresciuta attraverso l’attenzione della mia famiglia, ma anche dal sostegno e incoraggiamento della CM, stimolata a “Essere di Dio in tutte le espressioni della nostra personalità" (Statuto n. 48 a). Siamo chiamati a raggiungere questa meta nella realtà in cui ci troviamo; in ogni spazio geografico, nella giovinezza, nell'età adulta e nella vecchiaia, accogliendo il nuovo in ogni situazione. Ritengo il NOI CM una grande FORZA … anche per costruire nella nostra Famiglia una piccola Betania per Gesù. E qui ci sentiamo tutte impegnate a fare qualcosa. Questo "NOI" che vogliamo riscoprire e migliorare e che può rafforzare la nostra identità e coesione, ci dà le ali per continuare a camminare con questo mondo, e dentro di esso, per incoraggiarlo affinché possa rimettersi a sognare e guardare a nuovi e grandi obiettivi. In questo tempo difficile che tutti stiamo vivendo, le sfide sono tante … è importante chiederci qual è la volontà di Dio per ciascuno di noi e per la CM? Con l’aiuto dello Spirito Santo riusciremo a dare la nostra risposta coraggiosa. Ludovika Endang Sulastri
“la tua parola è lampada ai miei passi e luce alla mia strada ” (sal 118)
 
La Parola del Signore raccoglie in sé ogni espressione della nostra vita e sa condurci per mano nell’attraversare ogni sua fase. Anche se il tema dell’anzianità e dell’invecchiare non siano al centro della Parola di Dio, è possibile trovare in essa delle sottolineature interessanti per il nostro cammino spirituale. Un primo aspetto importante, che troviamo nell’Antico testamento, è il richiamo alla fecondità: Abramo e Sara sono molto avanzati negli anni quando nasce Isacco, il figlio della promessa e della benedizione (Gen21,5). Una lunga vecchiaia è il segno della fedeltà di Dio alle sue promesse: «Poi Abramo morì dopo una felice vecchiaia, vecchio e sazio di giorni e fu riunito ai suoi antenati» (Gen25,8). Così anche Isacco (Gen35,29) e Giuseppe che morì all’età di centodieci anni (Gen50,26). Potremmo dire che in età avanzata Dio si rivela, Mosè riceve la rivelazione del Nome di Dio e la missione di liberare il suo popolo quando è già anziano. Il Signore Dio gli era molto vicino e gli parlava come si parla ad un amico (Es33,11). La Parola dice che Mosè era «molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm12,3). Come a confermare che Dio, per operare la salvezza, si serve non dei forti e di coloro che godono di prestigio, ma degli umili e piccoli, di quel popolo umile e povero che lo cerca con fiducia (Sof2,2; 1Co 1,26-31). Troviamo nei libri sapienziali un altro aspetto quello del tempo della fatica interiore e della tristezza ... gli anni in cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto» (Qo12,1-8). Ma più spesso ci offrono il ritratto dell’anziano invecchiato bene, segnato cioè dalla saggezza e dal timore del Signore: «Nella giovinezza non hai raccolto; come potresti procurarti qualcosa nella vecchiaia? Come s'addice il giudicare ai capelli bianchi, e agli anziani intendersi di consigli! Come s'addice la sapienza ai vecchi, il discernimento e il consiglio alle persone eminenti! Corona dei vecchi è un'esperienza molteplice, loro vanto il timore del Signore» (Sir 25,3-6). Nel nuovo Testamento Gesù, Maestro di sapienza, ci insegna come affrontare le paure e le preoccupazioni che si accentuano col passare degli anni, in particolare la paura del futuro che, insieme alla tentazione pericolosa dell’accumulare ricchezze e cibo, si può curare solo con l’abbandono fiducioso nella Provvidenza (Lc 12, 12-21.22-31; Mt 6,25-34). Dopo aver affidato la sua Chiesa a Pietro, Gesù gli annuncia che, quando sarà vecchio, sarà condotto ad una morte violenta per il suo Nome: «In verità in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv21,18). Gesù indica come si svilupperà la crescita di Pietro, che è un po’ anche la nostra: si passerà dal tempo della decisione in prima persona alla stagione in cui si dovrà cedere l’iniziativa e «lasciarsi fare». Arrendersi - accettare - lasciar perdere - abbandonare - distaccarsi sono i verbi che impariamo e/o dovremo imparare a coniugare col passare degli anni. È un cammino impegnativo. È un po’ come una spogliazione progressiva che, se vissuta nella prospettiva dell’amore del Signore che non viene meno, che rimane affidabile sempre, poco per volta porta ad assomigliargli nei suoi passaggi di vita più difficili fino al culmine della crocifissione. «Egli deve crescere, io diminuire» (Gv3,30) Questa prospettiva pasquale che potrebbe comportare progressiva riduzione dell’attività, con il rischio di disabilità, di crescente solitudine, di paura e di arrabbiature soffocate, a pensarci bene ci ripugna profondamente, perché ci avvicina al mistero della sofferenza, il più arduo della nostra esistenza, che nessuno riesce a comprendere e accettare, se non nella fede e nella contemplazione del mistero di Dio. Il ruolo fondamentale della preghiera Non dobbiamo scoraggiarci: esiste un cammino che ci consente, poco alla volta, di vivere la vita quotidiana in un atteggiamento contemplativo. In questo contesto, anche la preghiera segue la dinamica della nostra crescita personale. Partiamo dalla preghiera vocale, passiamo alla preghiera discorsiva, arriviamo a quella affettiva, per approdare alla preghiera contemplativa che viene chiamata anche preghiera del cuore. Essa è come una sosta silenziosa ai piedi del Maestro, nella quale ci esponiamo senza maschere, nella nostra realtà più profonda Ma dobbiamo perseverare nel dedicare al Signore il tempo destinato alla preghiera. La contemplazione non è solo un atteggiamento da agire, diventa stile di vita, diventa una dimensione di essa e ne determina la qualità. Lo «stare» cambia la qualità della vita e ci dà la possibilità di vivere il presente e nel presente. Produce in noi la capacità di stupirci e di godere delle creature di Dio. La dimensione contemplativa, in questo nuovo tempo della vita, dove diminuiscono gli impegni, in particolare quello lavorativo, ci può portare ad un nuovo «agire», caratteristico di questa età, più pacato e più profondo, più attento alle persone, più disponibile ad offrire una compagnia. Ci aiuta a perseverare nell’attesa vigilante del ritorno del Signore. La preghiera contemplativa si consolida nel corso degli anni, ricordiamo qui la famosa espressione del santo Curato d’Ars che descriveva la sua preghiera come un incontro silenzioso con Dio: «Io lo guardo ed Egli mi guarda» Nella contemplazione scopriamo di essere preziose agli occhi del Signore, così come possiamo pregare nel salmo 131: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia». Certamente siamo poco abituate ad usare la parola «contemplazione», ci sembra molto impegnativa, quasi una dimensione non raggiungibile, ma non dobbiamo lasciarci intimorire. Essa è un obiettivo per tutti i cristiani, purtroppo non è favorita dalla cultura attuale, centrata sull’efficienza e assopita nella distrazione. Nella nuova situazione, il tempo per la preghiera non manca, ma potrebbe essere carente il metodo e la costanza, potremmo correre il rischio della mediocrità se durante lo scorrere degli anni non avremo curato la nostra vita spirituale con l’ascolto della Parola, la vita dei sacramenti (penso che dovremmo riprendere la valenza, ad esempio, del sacramento della riconciliazione), la riflessione e un’offerta al Signore delle nostre fatiche. Le prove dell’anzianità possono richiamarci alla necessità di crescere nel nostro abbandono nel Signore. La centralità della formazione “Nella vecchiaia - dice un proverbio africano - ci si riscalda con la legna che si è raccolta durante la giovinezza”. Per questo possiamo dire che la riflessione di oggi è davvero per tutte. Infatti, se nel momento dell’invecchiamento non riusciamo ad accettare questa nuova situazione con le sue implicazioni, forse non siamo mai state richiamate da giovani a riconoscere ed accogliere i nostri limiti, a sentire che non tutto è possibile, che non ha senso coltivare dei complessi, o meglio dei deliri di onnipotenza. Forse, non siamo state educate a camminare secondo le possibilità, a spendere del tempo gratuitamente, a contemplare la bellezza senza volerla possedere, a voler bene a sé e agli altri. Forse abbiamo sempre vissuto con l’acceleratore al massimo per riuscire a percorrere in fretta tutte le strade, con l’unico obiettivo di poter governare e possedere il controllo di tutto. Ma tutto non si può possedere e/o governare. Gli atteggiamenti che ci portano alla fiducia, a credere in noi e negli altri, sono, da una parte, iscritti nel carattere della persona e, dall’altra, possono essere il frutto di una formazione iniziale e, sicuramente, di una formazione permanente che faccia leva sulla gratuità e sulla dimensione contemplativa dell’esistenza, grazie alle quali la persona continua a crescere. Dovremmo continuare ad essere sollecitate, dalla formazione permanente, a sviluppare curiosità intellettuale e cura della nostra preparazione professionale. Chi arriva alla stagione dell’invecchiamento senza aver coltivato l’abitudine alla lettura e allo studio e senza interessi culturali, senza un’attenzione ai bisogni del contesto e senza un hobby costruttivo, farà molta fatica a far passare il tempo e a riempire le lunghe giornate non più ritmate dagli orari lavorativi. La lettura di qualche testo di teologia, o di esegesi biblica, di qualche buon romanzo, di qualche bel giallo, di qualche buona rivista di aggiornamento, potrà non solo renderci umanamente vive e all’altezza dei nostri nuovi impegni, ma anche tenere viva ed esercitata la nostra mente in un momento di notevole cambiamento, dove il fermarsi potrebbe significare non solo perdere irrimediabilmente i neuroni necessari per il buon funzionamento del cervello, ma anche spegnere la lampada della saggezza, rendere vana l’esperienza e ridurre la conoscenza di sé. La comunità è il luogo privilegiato della formazione Vorrei che non dessimo per scontata questa cosa, cioè l’importanza di essere, per tutta la vita, formate dalla comunità. Non vi è un periodo temporalmente definito nel quale ci si forma, ma abbiamo la prima formazione e la formazione permanente, cioè formazione per sempre. Sappiamo che la formazione è importante per ogni età della vita. Allora la questione è non solo riaffermare questo principio fondamentale, ma anche cercare «come» poter fare questo. Come tradurre nella vita di ciascuna e della comunità questa consapevolezza, oggi, nelle diverse situazioni. Piccola conclusione Tutto questo ci colloca nella prospettiva che fa ritenere, appunto, che anche la stagione dell’invecchiamento può continuare ad essere feconda e, con il salmista, sapere che «anche nella vecchiaia porteremo frutti e saremo ancora rigogliose», capaci ancora di «fiorire negli atri del nostro Dio», sempre pronte ad «annunziare quanto è retto il Signore» (Salmo 92,14-16).
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