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COMPAGNIA MISSIONARIA
DEL SACRO CUORE
una vita nel cuore del mondo al servizio del Regno...
Compagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia MissionariaCompagnia Missionaria
Compagnia Missionaria del Sacro Cuore
 La COMPAGNIA MISSIONARIA DEL SACRO CUORE è un istituto secolare, che ha la sede centrale a Bologna, ma è diffusa in varie regioni d'Italia, in Portogallo, in Mozambico, in Guinea Bissau, in Cile, in Argentina, in Indonesia.
News
  • 14 / 05 / 2021
    SOLENNITA\' DEL SACRO CUORE DI GESU\'
    Venerdì 11 giugno 2021... Continua
  • 14 / 05 / 2021
    SOLENIDADE DO SAGRADO CORAÇÃO DE JESUS
    Sexta-feira 11 de junho de 2021... Continua
  • 14 / 05 / 2021
    SOLEMNIDAD DEL SAGRADO CORAZÓN DE JESÚS
    Viernes 11 de junio de 2021... Continua
incontro al pozzo
 
Entro nel silenzio: del corpo (cerco una posizione in cui stare comoda, ma concentrata e ferma), della mente, del cuore, della bocca.Prendo consapevolezza della presenza di Dio, che vuole parlarmi e invoco lo Spirito Santo.Leggo attentamente il brano. Gv 4,5-30 Alcuni spunti per meditare. Il pozzo: per gli ebrei simbolo della Parola di Dio; luogo di incontro: al pozzo Mosè incontra la futura sposa Zippora e Il servo di Abramo trova Rebecca come sposa per Isacco. Era circa mezzogiorno…. “Dammi da bere”… “Se tu conoscessi il dono di Dio… acqua viva”: l’ora del caldo, la stessa ora della crocifissione; anche sulla croce Gesù chiederà da bere. È la sua sete (desiderio ardente e vitale) di dissetare noi con la sua acqua: lo Spirito Santo. Sei mariti… nessun marito: gli idoli a cui consegniamo la vita sono sempre insufficienti a dissetarci, a colmare la sete di amore e di vita (il numero sei, per gli ebrei, dice una mancanza, insufficienza); il vero sposo che colma il cuore umano è Gesù, che al pozzo ha atteso la donna di Samaria, l’umanità peccatrice, eretica, adultera nei confronti dell’unico Sposo. Dove si adora Dio?... “Credimi, donna…”: l’umanità di Gesù è il vero, nuovo e unico tempio in cui è possibile incontrare Dio, lo Sposo. Gesù la chiama “donna”, che vuol dire “sposa”; nel Vangelo di Giovanni Gesù chiama “donna” sua madre (la prima, vera, fedele sposa di Dio), la samaritana e Maria di Magdala al sepolcro, (simbolo dell’umanità cercata dallo sposo fino nella profondità della morte e ritrovata nella risurrezione). I discepoli si meravigliarono…: i maestri della Legge non insegnavano alle donne e non parlavano con le donne in pubblico, e questa è una samaritana, cioè eretica e nemica dei giudei. La donna lasciò la sua anfora… “Venite e vedere”… Andavano da lui: l’anfora ormai non serve più, il suo cuore è dissetato e liberato dalla schiavitù degli idoli, infatti non teme di raccontare la sua esperienza e riconoscere i suoi errori; proprio dalla sua testimonianza, anche se alimentata da una fede ancora in ricerca, altri sono attirati a Gesù. È peccatrice perdonata. È finalmente sposa amata. È discepola-missionaria. Preghiera della sete Mezzogiorno.L’ora della solitudine e dell’arsura, sotto il sole cocente.C’è un pozzo.Non proprio vicino,ma che io sappia è l’unico.Con la mia sete e la mia brocca vado in cercadi un’acqua che possa lenire la mia sete.Sorprendente.Tu, straniero, mi chiedi da bere.Quando la gola arde, e anche il cuore,quasi sempre ti vedo straniero, Signore.In più assetato, anche tu, in un deserto di assetatiin un lungo mezzogiornolungo da questo monte all’altrodove ti disseterò di aceto…e sarà notte.“Se tu conoscessi il dono di Dio…”Credevo di conoscerlosu questo monte, nella mia casa, nella mia fedeal pozzo che io sonoma la sete…che acqua puoi darmi tu assetato?E io ho la brocca, io attingo, io cerco, io lotto.E sempre torno al pozzo, e sempre sete,e sempre solitudine e gola arsa e cuore vuoto.Non mi inganni anche tu, uomo,promettendomi un’altra acqua?Quale che non conosca?E perché serve un marito per avere l’acqua?Ma chi sei tu, profeta?Come sai delle cisterne screpolatealle quali ho creduto di saziarmi e mi hanno prosciugata?Tu solo, profeta straniero,- straniero per me è l’amore –chiedi l’acqua del mio pozzoe mi offri la tua sorgente…e cade la brocca dalle mie mani,diventata inutile la superba brocca ormai,nel cuore una fontana gorgogliache non posso contenere.Non temo più di incrociare sguardi di uomini,-mentre alle spalle sento il sorriso del tuo cuore dissetatodalla mia sete saziata -,sguardi affamati e deridentio sguardi sorpresi e sospettosicome quelli dei tuoi discepoliforse disturbati e un po’ gelosi che tu parli con una donna.Comprenderanno quando nel nuovo giardinocercherai la donna, un tempo anche lei straniera ora sposa,per colmarla della tua gioia nuova eternaperché la condivida,-lei dal cuore finalmente saziatolei degli apostoli apostola-,con i tuoi fratelli?Ormai saziata, io stessa sorgente,liberata dalla vergogna della mia sete umiliata,corro dai miei fratelli.Conosco la loro sete segreta.“Ho trovato uno che mi ha detto tutto quello che ho fatto”.E dunque non sei più stranierotu che conosci me donname umanità assetatavenduta a comprata dalla sete del cuore e del corpodella mente e dei sensi.Non sei più stranierotu che mi conosci senza fame e senza disprezzo,assetato di dissetarminon padrone ma sposo,saziato da una volontà d’amoreche è puro donoche non afferra ma liberache arderà ancora di setedel nostro aceto,finché sgorghi dal tuo cuorela sorgente che per sempre sempre di nuovo guariscecon un’onda che ristora e infiammatua Madre e le donneil discepolo amato e quelli in fuga e raggiuntie me donna un tempo stranieraora sposa discepola-missionaria.
all'alba del primo giorno
 
Liberazione della luce La nuova creazione nel tempo della grazia Ci sono giorni in cui devo pregare il Signore che mi restituisca l’udito, altri in cui la Parola fa breccia nel cuore, e non vorrei perderne una sola. Così, per fare memoria della mia fede, sto ripercorrendo, alla lettura del Vangelo, quelle parole che hanno segnato la mia vita, cambiandomi. Ma il Signore fa nuove tutte le cose, e vedo e ascolto come per la prima volta parole già udite e conosciute. Come mai non le avevo sentite prima? E in questa riscoperta e nuovo ascolto si sono fatte spazio le parole di Matteo che racconta la Pasqua di Gesù. All’alba del primo giorno Il racconto è scandito con determinazioni temporali precise, a partire dal capitolo 26: “Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua…”, “Il primo giorno degli azzimi”, “Venuta la sera”, “Questa notte”. Poi la scansione temporale accelera in crescendo: “Venuto il mattino”, “a mezzogiorno”, “Verso le tre del pomeriggio” “Venuta la sera”, e dilatarsi poi in un TEMPO senza confini: “il giorno seguente”, “dopo il Sabato”, “all’alba del primo giorno”. Mi ritornavano note familiari, con altre profondità: primo giorno, e fu sera, e fu mattina… Graziella mi dice al telefono che loro, diocesi di Ambrogio, stanno leggendo Genesi. Anch’io torno ai primi passi della creazione, al soffio che dà la vita al primo Adamo, e mi sembra di riconoscere quei segni del Creatore che rivela nel nuovo Adamo la Sua Immagine: e torno indietro ad ascoltare Matteo: che cosa mi racconti? Di Chi mi parli? Ecco l’identità del nuovo Adamo, Dio-Uomo: Gesù avverte i suoi, fra due giorni, è la pasqua, anche lui sente l’avvicinarsi dell’ora, si preoccupa di avvisare gli amici, statemi vicino, insieme siamo più forti nella notte. Ma è SOLO, anche il Padre sembra tacere, e lui tace, tace davanti al Sinedrio, tace davanti a Pilato. Solo la verità parla, e parla con la voce di chi lo accusa: Tu lo dici, Io sono il Figlio di Dio, Tu lo dici, il mio Regno… Figlio di Dio e Re, ma quale nuova creazione dell’uomo: mite, non oppone resistenza, oltraggiato, perdona, tradito e rinnegato, guarda con amore, e in quel sabato santo, in cui il tempo della notte sembra non aver fine, cielo e terra si riconciliano, all’uomo si apre il tempo della grazia: era l’alba del primo giorno Non è il fine settimana che ci fa tornare con la faccia triste al lavoro del lunedì, no. È l’alba del primo giorno del tempo che ci è dato da vivere, nella vita del Risorto, è il primo giorno della nostra Pasqua!
purificazione del tempio
 
Entro nel silenzio: del corpo (cerco una posizione in cui stare comoda, ma concentrata e ferma), della mente, del cuore, della bocca. Prendo consapevolezza della presenza di Dio, che vuole parlarmi e invoco lo Spirito Santo. Leggo attentamente il brano. Se siamo in gruppo una persona proclama la Parola: Gv 2,13-22 In silenzio rileggo, cercando di cogliere, anche sottolineando, le parole o frasi che attirano la mia attenzione, che suscitano un sentimento di commozione, di gioia, di timore, che provocano perplessità, incomprensione… Per cogliere il significato di alcune frasi o parole, è utile andare a leggere ciò che precede il brano che voglio meditare, o cercare in altri brani frasi simili. Si tratta di leggere la Bibbia con la Bibbia. È molto utile entrare nell’episodio descritto, fare la composizione del luogo: immaginare il posto, al situazione, le persone, l’avvenimento che viene narrato, e porre me stessa all’interno del racconto, trovare il mio ruolo; posso identificarmi con uno dei personaggi presenti, comunque è importante coinvolgermi in ciò che leggo. Medito. Se siamo in gruppo, una persona può suggerire alcuni spunti di meditazione. v. 13: … la Pasqua… a Gerusalemme La Pasqua è la festa della liberazione che prepara l’alleanza nuziale tra Dio e il popolo. Gerusalemme è la città santa, la città di Dio, la città dell’alleanza. È la sposa, l’amata. Il segno dell’alleanza è il tempio dove Dio abita nel cuore della città. Dopo il segno a Cana, dove si rivela come lo Sposo, Gesù sale a Gerusalemme per la Pasqua. Va a cercare la sua sposa. Per liberarla. vv. 14-15: … fece una frusta di cordicelle … gettò a terra… Il secondo segno nuziale. Il bell’annunciovangelo, offerto già dai profeti, e che Gesù è venuto a compiere, è che Dio ama tanto l’umanità da volerla come sposa libera, a cominciare da Gerusalemme. La sua presenza nel Tempio, cuore della città, è la testimonianzaprofezia di questo amore. Ma quando lo Sposo viene nella sua casa, trova la sposa, liberata un tempo dalla schiavitù politica, schiava dell’idolatria, intenta a mercanteggiare l’amore. Di quell’amore totale e gratuito che Dio offre, la sposa ne fa mercato. Crede di comprare con denaro, con offerte di animali, la benevolenza di Dio, che invece offre se stesso e il suo Unigenito per amore. Poiché il grande potere, nelle relazioni umane, è quello del denaro, anche nella relazione con Dio, il vero  potere è riconosciuto al denaro. E così anche davanti a Dio l’umanità si deve dividere in ricca o povera, a seconda del denaro che ha per comprare l’offerta del sacrificio. La reazione violenta di Gesù è segno profetico, manifesta la sua passione d’amore, perché l’amore che si compra è prostituzione. Il tempio, luogo sacro dell’Amore è trasformato in luogo di prostituzione. Dio non si compra con l’offerta di agnelli e buoi. Entra nel tempio il vero Agnello di Dio che offre se stesso al popolo per liberarlo dalla mortale idolatria. vv. 16-17: … ai venditori di colombe… non fate della casa del Padre mio un mercato! La colomba è simbolo di Israele. Nel Cantico dei Cantici, l’innamorato così si rivolge all’amata: “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole”. (Ct 2,13-14). E nella Casa del Padre, le colombe immagine della sposa, vengono vendute. Ancora un’immagine dell’amore sottoposto a mercato, segno del tradimento dell’amore. La casa è il luogo dell’amore nuziale, della fedeltà, dell’intimità tra lo sposo e la sposa. La casa dell’Amore di Dio è profanata, insozzata dall’idolatria: il vero dio di cui si riconosce il potere è il denaro, tradimento dello sposo e schiavitù della sposa. Questa ira di Gesù rivela la gelosia di Dio. Dio è geloso di noi, nel senso che ci difende, a costo della sua vita, dall’idolatria che ci uccide. E i discepoli cominciano a comprendere le parole del salmo 69: “La passione per la casa dell’amore mi divora”. vv. 18-21: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” I giudei chiedono a Gesù le credenziali dei segni, per poter riconoscere la sua autorità. Anche a noi, troppo spesso, non bastano la Parola e la Vita di Gesù per credere, chiediamo segni straordinari, miracoli. Ma l’unico segno sarà l’antisegno: il crocifisso! L’esatto contrario di ciò che ci aspettiamo: aspettiamo i segni del potere. Ci verrà dato il segno della debolezza dell’amore. Con questo gesto della purificazione del Tempio, Gesù vuole purificare noi, liberarci dall’idolatria e dalla schiavitù del denaro e del potere che con esso crediamo di acquistare. E vuole rivelarci che il vero tempio non è più quello di pietre e in muratura. Il vero Tempio è Lui e viene distrutto: anche di Lui fanno mercato, venduto per trenta denari! Ma Lui non si vende al successo e alla menzogna, per questo muore, fedele all’amore del Padre e fedele all’amore anche verso coloro che lo uccidono, perché piova su loro il perdono del Padre e abbiano la vita eterna. E la risurrezione al terzo giorno suggella la vittoria dell’amore sulla morte. v. 22: Quando fu risuscitato dai morti… Noi siamo discepoli, siamo la chiesasposa, ma come i discepoli di allora ancora oggi proviamo disagio di fronte a questa scena, a questo comportamento di Gesù. Ci sembra che contraddica tutto ciò che egli ci rivela dell’amore e della misericordia. L’evangelista dichiara che solo se abbiamo contemplato il crocifisso risorto possiamo accogliere questo segno che Gesù compie. È la stessa passione d’amore che lo ha condotto a offrirsi liberamente alla passione dolorosa e alla morte di croce. Non ha reagito con la frusta contro chi oltraggiava e torturava lui. Ma reagisce con la frusta contro chi, in nome dell’onore da offrire a Dio, rende schiava la sua sposa e oltraggia il Padre. Lasciamoci stupire dall’agire di Gesù, lasciamoci stupire dalla sua croce, che è la piena rivelazione di Dio. E lasciamo che ci scandalizzi la passione del suo Cuore, se è la sua arma per distruggere immagini false e idolatriche che ancora inquinano il nostro rapporto con lui, lo Sposo che ama e si dona, non l’idolo che attende di essere conquistato con preghiere e offerte a pagamento. Se siamo in gruppo, dopo qualche momento di silenzio, è bene fare la condivisione, dove ciascuno parla e ascolta, senza discussione. È lo Spirito che parla in ognuno. Infine prego o preghiamo a partire dalla Parola ascoltata.
nozze a cana di galilea
 
Entro nel silenzio: del corpo (cerco una posizione in cui stare comoda, ma concentrata e ferma), della mente, del cuore, della bocca. Prendo consapevolezza della presenza di Dio, che vuole parlarmi e invoco lo Spirito Santo. Leggo attentamente il brano. Se siamo in gruppo una persona proclama la Parola: Gv 2,1-11 In silenzio rileggo, cercando di cogliere, anche sottolineando, le parole o frasi che attirano la mia attenzione, che suscitano un sentimento di commozione, di gioia, di timore, che provocano perplessità, incomprensione… Per cogliere il significato di alcune frasi o parole, è utile andare a leggere ciò che precede il brano che voglio meditare, o cercare in altri brani frasi simili. Si tratta di leggere la Bibbia con la Bibbia. È molto utile entrare nell’episodio descritto, fare la composizione del luogo: immaginare il posto, la situazione, le persone, l’avvenimento che viene narrato, e porre me stessa all’interno del racconto, trovare il mio ruolo; posso identificarmi con uno dei personaggi presenti, comunque è importante coinvolgermi in ciò che leggo. Medito. Se siamo in gruppo, una persona può suggerire alcuni spunti di meditazione. vv. 1-2: Il terzo giorno vi fu una festa di nozze…. La narrazione dei fatti inizia al cap. 1,19. Contiamo la sequenza dei giorni e scopriamo che le nozze sono celebrate al sesto giorno della prima settimana di ministero di Gesù. La Genesi inizia con una “settimana”: il sesto giorno (venerdì) Dio crea l’uomo e la donna benedicendo la loro unione che è la piena immagine di Dio. Nel sesto giorno della “nuova” creazione (venerdì) inaugurata dalla missione salvifica di Gesù, l’evangelista ci offre una scena di nozze. Che senso hanno le nozze? Cosa dicono alla società e alla mia vita? Come mai si dice che sono presenti Gesù e i discepoli e la Madre, ma non si dicono i nomi degli sposi, che sembrano quasi scomparire dall’orizzonte della scena? Noto anche che non si dice il nome della Madre. v. 3: “Non hanno vino” Nella Scrittura, il vino è segno di gioia. “Rallegra il cuore dell’uomo” (salmo 104). Indica l’ebbrezza dello Spirito: “Il mio calice è colmo di ebbrezza”(salmo 23). La gioia dello Spirito è evidente là dove si vive la comunione, l’amore, la fecondità. Vino e nozze si richiamano a vicenda. Mi chiedo se davvero nelle nostre feste c’è il vino della gioia vera. In Gv 15, Gesù dice che è lui a darci la pienezza della gioia. Quanta gioia vera c’è nell’amore umano, nelle nozze, così come sono intesi e vissuti nella nostra società? Conosco la gioia vera che viene da Dio o spesso anche nella mia vita manca il vino della gioia? Conosco il vino della gioia vera? v. 4: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” La Madre di Gesù si accorge che manca il vino e, stranamente, non si rivolge a chi ha organizzato il banchetto – lo sposo -, ma a Gesù. La risposta di Gesù, che per noi suona quasi irrispettosa, può persino irritarci. Se ho difficoltà a capire, significa che nasconde un significato profondo, il senso di tutto l’avvenimento. “Donna” è chiave di lettura di tutta la Scrittura che, dall’inizio alla fine, ci rivela quale rapporto intercorre tra Dio creatore e l’umanità: un rapporto sponsale, fin dall’inizio ferito dall’infedeltà della sposa, ma destinato alle nozze eterne dove la gioia raggiunge la pienezza, perché finalmente la sposa è resa dallo Sposo senza ruga né macchia, immacolata, pienamente fedele. Stiamo ascoltando e contemplando una rivelazione che darà senso a tutto il Vangelo. Chiamando sua Madre “Donna”, Gesù ce la rivela come la vera “Sposa” fedele che attende il vino della gioia delle vere nozze, quelle che Gesù stesso è venuto a compiere con l’umanità salvata, di cui la Madre è primogenita. Così rivela se stesso come il vero “Sposo”, l’unico che ha il vino della vera gioia e del vero amore. Ma Gesù dice anche che non è ancora compiuta l’ora di quelle nozze. v. 5: “Qualunque cosa vi dica, fatela” La Madre, che è la Donna-Sposa, insegna ai servitori, a noi, il senso delle nozze che Dio compirà con l’umanità. Le nozze sono un’alleanza. La stessa celebrata sul Sinai da Dio con il suo popolo. Un’alleanza realizzata attraverso l’accoglienza della Parola di Dio. A Dio che parla il popolo risponde: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”(Es 24,7). Anche se ancora non è giunta l’ora, la Madre, Donna primizia dell’umanità-sposa, indica la strada. Quella che lei ha già percorso: “Ecco la serva del Signore. Avvenga per me quello che hai detto” (Lc 1,26). vv. 6-7: Vi erano là sei anfore… Contenevano circa 600 litri di acqua, che serviva alla purificazione rituale prima del pasto. La sposa che Dio ama ha bisogno di purificazione, ma ha solo acqua per farlo. E solo “sei” contenitori. Nella cultura ebraica il numero “sei” indica mancanza, insufficienza. Da sola l’umanità non può raggiungere la vera purificazione, la rigenerazione dell’amore vero. Può presentare allo sposo la sua povertà, la sua insufficienza. Gesù dice ai servi di riempirle di acqua…. Ma c’è bisogno di vino e non nelle anfore della purificazione! Ci sorprende l’obbedienza dei servitori. Sembra un comando assurdo, ma obbediscono, secondo l’indicazione della Madre. vv. 8-10: …il vino buono… E ancora obbediscono quando devono servire al direttore del banchetto… l’acqua che attingono dalle anfore piene. Ma costui si congratula con lo sposo – che non ci è dato conoscere – per questo vino buono, e sovrabbondante: 600 litri! La gioia scorre come un fiume, quando si realizza l’alleanza sponsale. Questa festa di nozze a Cana diventa la profezia di quelle nozze che si realizzeranno in un altro venerdì della storia, quando giungerà l’ora dello Sposo Gesù e la Donna-Sposa ci sarà consegnata come Madre. Là ci sarà il vero vino nuovo e buono che lo Sposo offrirà per sempre alla Sposa-Chiesa-Umanità. Sgorgherà dalla “settima” anfora, quella della pienezza dell’amore dello Sposo: il suo Cuore trafitto. v. 11: …l’inizio dei segni… Non abbiamo contemplato un miracolo, ma un “segno”, che parla di Dio e di noi, di me. Ascolto superficialmente la Parola? Vedo solo ciò che è esteriore? O ascolto in profondità? Cerco il senso, il significato? Cosa mi rivela questa Parola e questo segno? Cosa mi dice di Dio, di me, dell’umanità? Che risposta suscita dentro di me? Come “faccio” e “ascolto”? Comprendo e accolgo il rapporto con Dio come alleanza sponsale? Se siamo in gruppo, dopo qualche momento di silenzio, è bene fare la condivisione, dove ciascuno parla e ascolta, senza discussione. È lo Spirito che parla in ognuno. Infine prego o preghiamo a partire dalla Parola ascoltata.
familiares: sacramento dell'amore di dio
 
Familiares (uomini e donne) Ef 2,19-22 19Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio (οὖν οὐκέτι ἐστὲ ξένοι καὶ πάροικοι ἀλλὰ ἐστὲ συμπολῖται τῶν ἁγίων καὶ οἰκεῖοι τοῦ θεοῦ), 20edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. 21In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; 22in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito. Il vostro stato di familiares è definito anzitutto in rapporto alla Compagnia missionaria e alla sua vocazione. Ma non è un aggettivo, è un sostantivo radicato nel battesimo, che vi costituisce «concittadini dei santi» e «familiari di Dio». In rapporto alla Chiesa siamo «concittadini dei santi», abitatori della medesima città dove abitano i “santi”, cioè i figli di Dio. Il termine “santo”, con la sua connotazione di separato, indica una condizione di privilegio, di elezione. L’attributo di “concittadini” indica un’identità condivisa. Con i santi condividiamo la città e condividiamo la città da santi. Se per i religiosi una storia millenaria avvalla il sospetto che nella consacrazione si andasse cercando una “fuga mundi”, i Familiares sono immuni da questo sospetto fin dalla fondazione e dalla definizione statutaria. Nella città degli uomini «voi non siete più stranieri né ospiti (ξένοι καὶ πάροικοι)»; non siete “parrocchiani”, ma concittadini. Non siete chiamati a costruire un’altra città, ma ad abitare questa città insieme con tutti gli altri. La chiamata non vi porta fuori dalla città, ma vi spinge a «scrivere la legge divina nella vita della città terrena» (GS 43, citato da S 18). È qui la bellezza e la grandezza della vostra chiamata, consapevoli che quanto vivete da cittadini non vi sottrae al Vangelo, anzi vi rende artefici di quella edificazione che ha la pietra angolare in Cristo Gesù. Quando collaborate a superare le ingiustizie, a riconciliare le divisioni, a ridare dignità di cittadini a chi è emarginato, anche se colpevole, voi edificate quella città costruita sul fondamento del Vangelo annunciato e reso concreto (apostoli) nella quale Dio stesso vuole abitare, vuole dare casa ai suoi “familiares” (οἰκεῖοι). Lc 8,19-21 19 E andarono da lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20 Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». 21Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica». A costituirvi familiares è dunque la chiamata – che è di tutti i credenti – ad ascoltare e mettere in pratica la Parola. I familiari di Gesù vengono per ricondurlo a sé, per “sequestrarlo”, per riportarlo nell’alveo dei rapporti di parentela di sangue. C’era anche Maria tra quelle persone. Immagino il conflitto che stava vivendo, lei che aveva già attraversato il dubbio («come avverrà questo?» Lc 1,34) ma si era consegnata in quell’ecce ancilla nel quale riconosciamo la nostra adesione di fede. Come accade altre volte nel Vangelo, Maria viene ricondotta al nudo sì della fede (cf. Cana, la croce). I familiari di Gesù secondo la carne vogliono “vederlo” e per raggiungere questo obiettivo la folla è loro di impedimento. Gesù manda a dire loro che suoi familiares sono coloro che «“ascoltano” la Parola di Dio e la mettono in pratica». Ai familiares non è data la visione, ma l’ascolto. Condividono con gli altri “concittadini” il desiderio di vedere, di toccare con mano, di tirare una riga e stilare bilanci, ma possono solo proseguire ascoltando e mettendo in pratica. Diventano loro il Vangelo visibile. Sono loro la città posta sul monte, la luce accesa nella stanza che altro non può fare se non emanare luce, sale che non può essere senza sapore, lievito che altro non sa fare se non fermentare la pasta. «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?» (cf. Mt 25). Quando mai ti abbiamo “visto”? Però abbiamo messo in pratica la tua parola e così hai potuto farti prossimo (cf. buon samaritano Lc 10,29-37). La vita quotidiana: parola e sacramento Nelle risonanze delle vostre schede, una delle insistenze più ripetute e più concordi è quella riferita alla spiritualità della vita quotidiana. È nella consapevolezza comune dei Familiares di essere chiamati non tanto a compiere opere particolari, ma piuttosto a vivere ogni azione animati da quello spirito che si vorrebbe lo stesso che animava il Cuore di Cristo. La celebrazione della Parola e del sacramento è un momento definito delle nostre giornate, un momento elettivo, “santo” (cioè distinto). Ma è vuoto se non porta con sé la materia della vita quotidiana. È la vita quotidiana che mette in pratica la Parola (e dunque la fa vivere) e dà materia al sacramento. Gal 2,19b-20 (il versetto biblico più citato da p. Dehon): «Sono stato crocifisso con Cristo, 20e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». La vita quotidiana non è ciò che ci sottrae alla vita della grazia, ma anzi ciò che la fa scorrere; non ciò che ci sottrae all’intimità con Dio, ma ciò che ci rende familiares perché mettiamo in pratica la Parola ascoltata. Cf. S 44: «L’amore vissuto al punto di divenire “comunione” con Dio e con i fratelli». La Parola non ci è data per battere l’aria, ma perché, come la pioggia e la neve, fecondi la terra e la faccia germogliare (cf. Is 55,10-11) perché porti frutto. Una Parola che, nata dal Verbo, ha bisogno sempre di incarnarsi. Nell’annuncio e nella carità. Quando le nostre parole sono animate e suggerite dallo Spirito che abita in noi, e dunque sono carità, danno carne al Verbo. E il Verbo non ha altra possibilità se non le nostre parole per farsi uomo oggi. Così è per i nostri gesti. Quando sono animati dallo Spirito che abita in noi, e dunque sono carità, diventano sacramento, gesto efficace che trasmette la grazia. La nostra vita si muove lungo il dinamismo di questo pendolo: i gesti particolari del sacramento e la sacramentalità dei gesti ordinari. Celebriamo ciò che viviamo e viviamo ciò che celebriamo. Non andiamo in cerca di cose grandi superiori alle nostre forze, né di gesti spettacolari che attirano l’attenzione più su di noi che sulla grazia che in essi scorre. Il messianismo di Gesù. Gesù, nel deserto, mentre si interrogava su quale fosse la vocazione messianica alla quale era chiamato, è stato tentato dal prodigioso, dallo spettacolare, dal dominio. Ma ha respinto questi progetti messianici come diabolici e ha scelto la via della semplicità, dell’umiltà, addirittura della croce. Anche noi partecipiamo oggi sacramentalmente a ciò che salva il mondo non attraverso la grandiosità delle nostre azioni, ma attraverso la piccolezza scelta per fede, perché la nostra debolezza sia sacramento della grazia di Dio. I familiares non fanno cose straordinarie. Forse anche quelle. Ma soprattutto vivono le cose ordinarissime con la fede nella straordinarietà della grazia di Dio che si fa carne, si fa sacramento, si fa pane quotidiano nella quotidianità del pane che prepariamo e condividiamo. Non diamo al mondo tesori d’oriente, ma semplicemente pane. Quel pane quotidiano è il sacramento nel quale Dio stesso si fa nostro familiaris alle nostre mense. Siamo invitati a superare anche la tentazione speculare, di non volere la nostra messianicità, di dubitarne, di voler essere lasciati in pace nel nostro piccolo mondo senza il sorprendente della grazia. È l’“ultima tentazione” di ogni cristo. Perché la quotidianità porta con sé sempre anche la croce («Se uno vuol venire dietro a me ... prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» Lc 9,23) (cf. S 14). Aver paura del talento che ci è stato consegnato e seppellirlo nell’illusione di conservarlo. Mentre invece, nella logica sacramentale del Vangelo, ciò che non si dona si perde. E chi non ha si trova anche senza quello che ha. È il carisma del sacerdozio, dato a tutti nel battesimo. I sacerdoti ordinati sono quelli dediti a “fare le cose del sacro”. Il sacerdozio del battesimo è quello che ci abilita a “fare sacre tutte le cose”, a “con-sacrare” ogni azione rendendola un “sacrificio” (sacrum-facere) che non è offerta di cose o animali, ma offerta di se stessi. È lo Spirito donatoci che trasforma ogni cosa in sacrificio; è la carità, da noi vissuta come “spirito di oblazione”, che fa di noi, anzitutto, e poi delle nostre azioni un’“offerta gradita a Dio”. Cf. S 42 Col 3,17 17E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre. Come credenti non compiamo opere straordinarie, ma «qualunque cosa», anche la più ordinaria facciamo in modo che «avvenga nel nome del Signore Gesù». L’inno all’amore di 1Cor 13: potrei anche compiere le opere più straordinarie, ma se non avessi l’amore sarei un nulla. Addirittura siamo chiamati a fare in modo che le cose «avvengano nel nome del Signore». Siamo chiamati a dare un senso all’intera storia, perché tutto sia orientato alla carità. «Nel nome del Signore Gesù» suggerisce almeno tre dinamiche: » tutto avvenga per grazia di Gesù, tutto si compia in forza della sua grazia. Lasciamo cadere la presunzione di compiere qualcosa in forza delle nostre capacità, e nello stesso tempo non cedere alla frustrazione della debolezza ripetutamente sperimentata, perché è nella debolezza che si manifesta la grazia di Gesù Cristo. » tutto si compia per amore di Gesù. Non facciamo le cose per dovere, ma per amore. E non per un amore generico e astratto, ma per amore di Qualcuno, di lui. » tutto avvenga in nome suo, per conto suo. La missione in un certo senso ci espropria del merito, perché tutto ciò che facciamo lo facciamo “in nome suo”, “per conto suo”. Questo ci libera anche dalla necessità di pesare il raccolto. Lo Statuto 15 e 21 (dove cita Col 3,17) incammina verso questo orizzonte. Ef 5,18b-20 Siate ricolmi dello Spirito, 19intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, 20rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Ci è stato dato lo Spirito, che colma della sua grazia e ci suggerisce il ringraziamento per ogni cosa e in ogni caso a Dio Padre. Rispetto a Col 3,17, in questa esortazione di Paolo (?) possiamo leggere un significato più “passivo”, accogliente: » Rendere grazie perché ogni cosa viene da Dio e noi possiamo riconoscere in ogni cosa e in ogni avvenimento un risvolto provvidenziale: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). » Rendere grazie perché ogni cosa e ogni avvenimento pos.sono portarci a vivere una comunione più profonda con lui. Anche i sassi possono diventare gradini. Non esiste sentiero che non possa portare a Dio. Perché la sua volontà è proprio questa: che io possa trovare comunione in lui. » Rendere grazie perché tutto ci parla di Dio. In ogni cosa e in ogni situazione possiamo trovare un motivo per ringraziare Dio e anche i fratelli e sorelle che sono la “carne” attraverso la quale Dio ci raggiunge. E rendere grazie perché fa di noi i sacramenti della sua carità. Tutto può diventare motivo di ringraziamento, motivo di “eucaristia”. La nostra vita può essere un’eucaristia continua, nel doppio significato: tutto possiamo offrire a Dio e possiamo ringraziare di tutto perché ci è offerto da Dio. Anche la “croce” diventa motivo di “eucaristia”, perché, «nel nome di Gesù», la croce non è più senza senso, ma «anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto» (Prefazio VIII). Il nostro ringraziamento non è una generica esclamazione di meraviglia per qualcosa di bello, come potrebbe essere il fiotto di emozione che si prova dinanzi a un bel paesaggio, ma è sempre un ringraziamento personale, rivolto a un nome: “nel nome di Gesù”. 1Cor 10,31 31Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Cf. Statuto 9a «Alla scuola del Cuore di Gesù impariamo anzitutto a realizzare la “comunione” con Dio mediante l’impegno ad accogliere e coltivare la vita di grazie e l’attenzione a tutte le circostanze per testimoniarla ai fratelli». L’espressione che utilizza Paolo scrivendo alla Chiesa di Corinto fa riferimento – lo si desume dal contesto – alla carne immolata agli idoli. Conosciamo il dilemma che ha impegnato le prime comunità e la coscienza dei primi cristiani. La carità e la gloria di Dio diventano la misura del bene e il criterio di discernimento di ogni nostra azione («sia che facciate qualunque altra cosa»). Quando lo Statuto invita a realizzare la comunione con Dio non fa altri che riprendere con altre parole l’invito paolino: «fate tutto per la gloria di Dio». La gloria di Dio non è un attributo che gli viene riconosciuto da fuori e che è tanto più grande quanto più si eleva sopra di noi. Al contrario, la gloria di Dio, ciò di cui Dio si gloria, si stima, ciò che vuole per sé è la comunione con noi. Quella di cui parla lo Statuto. Ad maiorem Dei gloriam è il motto dei gesuiti. Per noi della famiglia dehoniana mi piace pensare, nello spirito della Evangelii gaudium, che il motto possa essere Ad maius Dei gaudium. È lui che nel Salmo (133[132]) rivela ove trovi gioia: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!». Col 3,16 16La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori. Facciamo un passo indietro nella citazione di Paolo, ma probabilmente è un passo avanti nel nostro discorso: lasciarsi abitare dalla ricchezza della parola di Cristo. Potremmo azzardare: lasciarsi abitare da quella parola che è Cristo. Dalla ricchezza della Parola attingiamo sapienza, grazie alla quale è possibile il discernimento personale e l’istruzione fraterna. Dalla stessa Parola attingiamo anche la grazia che trasforma la nostra vita in un canto a Dio. La traduzione italiana dice «con gratitudine», ed è un significato alto, ma il testo sia greco sia latino dice «nella grazia». La grazia di Dio fa sì che le nostre azioni («sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa») siano come note di un canto, con il quale rallegriamo Dio. Che accetta di buon grado anche le nostre stonature... La preghiera Ef 6,18 18In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi. Nelle risonanze delle vostre schede, l’altra convergenza è attorno alla centralità della preghiera. Intesa in maniera privilegiata come eucaristia, adorazione, meditazione della Parola. Evidentemente in ossequio allo Statuto (cf. n. 23). Nella citazione di Paolo agli efesini – nella sua traduzione italiana – ricorre ben tre volte l’aggettivo “ogni” (anche in latino e in greco il corrispondente). L’immagine di una preghiera diffusa, che pervade “ogni” momento in “ogni” forma. Il n. 22 dello Statuto sembrerebbe dare alla preghiera una connotazione strumentale («Un aiuto sicuramente efficace»). Ma continuando nella lettura si trova il significato profondo espresso dallo Statuto: «Gradualmente essa ci addentra nelle disposizioni e nei sentimenti del Cuore di Gesù e favorisce un’operosa “comunione” con lui, in docilità allo Spirito Santo». In ogni occasione (ἐν παντὶ καιρῷ) Lo Statuto, al n. 20, concludendo sulla “missione” dice che «La disposizione con cui vivremo la nostra missione sarà di continua comunione con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo, nella grazia dello Spirito Santi, con tutta la Chiesa,le sorelle e i fratelli di ideale». Ogni evento, ogni momento possiamo trasformarlo in occasione di preghiera, cioè di comunione cercata con Dio. Paolo usa il termine greco “kairos” (kairoς), che ben conosciamo per il suo significato pregnante. Kairoς è l’occasione puntuale nella quale si manifesta la grazia di Dio. Nella vita del cristiano ogni occasione può diventare tempo di grazia se lasciamo che sia lo Spirito a guidarci. Tutto il nostro tempo, vissuto come offerta – cosa è lo “spirito di orazione” se non questo? –, diventa tempo di grazia. Con ogni sorta di preghiere e suppliche Si può pensare che Paolo abbia usato il doppio termine come rafforzativo. Il primo termine (proseuché – proseuch) fa riferimento alla preghiera nel suo significato più ampio, che va dalla lode all’invocazione all’intercessione... Il secondo termine (deésis – dehsiV) intende un significato particolarmente rafforzativo. È una forma di preghiera solitamente associata al digiuno, espressione di un momento di particolare travaglio o necessità. L’invito di Paolo è a lasciare che la preghiera dia parole e sentimenti a ogni momento della nostra vita, da quello ordinario a quello di maggiore angustia o difficoltà Sono poche le preghiere “particolari” dei Familiares. Potrebbero anche essere nessuna. Perché ciò che dà sapore alla nostra preghiera è che diventi un atteggiamento dello Spirito, una sorta di “indole”, quasi un tratto del nostro carattere che si palesa in ogni cosa che facciamo. Vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi Se la preghiera si dilata ad ogni momento della nostra giornata e gioca tutti i suoi registri siamo approdati alla “preghiera incessante”. Non vuol dire recitare incessantemente orazioni. Sarebbe impossibile. Lodevole la forma dell’esicasmo. Ma ancor più apprezzabile e alla portata di tutti una preghiera incessante perché portata ad abitare le tante circostanze («in ogni circostanza»). Non ci sono per questa preghiera forme precostituite, ma ognuno è invitato a costruire con pazienza umile o a trovare la propria forma di una preghiera “perseverante”. Ci aiuta, anzi forse ne è la meta, l’esperienza di una comunione profonda con Dio, che sentiamo al fondo delle nostre giornate, sia che vegliamo sia che dormiamo, sia che mangiamo sia che beviamo, sia che agiamo sia che meditiamo. La condizione di familiari di Dio, che resta vera anche quando non ci pensiamo. Se sono figlio, lo sono sempre. La preghiera diventa questa sorgente sotterranea che alimenta i nostri pensieri e le nostre azioni. Fino a contrassegnare perfino le nostre imprecazioni. [Aneddoto dell’uomo e la scodella] Nello spirito Quello della “preghiera nello spirito / nello Spirito” è un capitolo molto ampio, caro particolarmente a Giovanni, nel suo Vangelo e nelle sue lettere. Gv 4,23 «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». Può essere inteso in un doppio senso: adorare nello spirito può significare una preghiera fatta di atteggiamenti dello spirito più che di pratiche e formule (come del resto sottolineano i vostri riscontri alla IV Scheda sulle “pratiche”). Ma soprattutto significa che la preghiera “cristiana” è preghiera “nello Spirito”. In lui. E lui in me. È lo Spirito che prega in me, “con gemiti inesprimibili. Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili (Rm 8,26). Penso sia esperienza comune quella di scoprirsi incapaci di preghiera, o di qualcosa che ci strugge dentro e ci mette in conflitto tanto che nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare. La preghiera dell’umile accetta di sapersi inadeguata e crede di essere ascoltata non perché ben formulata, ma perché accetta che anche i gemiti inesprimibili siano abitati e mossi dallo Spirito. Lo Spirito che veste anche i nostri gemiti inesprimibili per farne preghiera. E tutto può diventare preghiera, anche ciò che è inesprimibile se ci affidiamo allo Spirito, che il Padre desidera donarci e Gesù ha promesso. Gesù ci ha insegnato a chiedere anzitutto lo Spirito (cf. Lc 11,13 a “commento” del Padre nostro), perché grazie allo Spirito tutto in noi può diventare preghiera. Lo Spirito «viene in aiuto» alla nostra debolezza, quando ci sembra di non farcela, nemmeno a pregare. Il verbo che usa Paolo (sunantilambanw) ricorre soltanto un’altra volta nel NT, quando Marta chiede a Gesù che dica alla sorella Maria di venirle in aiuto (cf. Lc 10,40). È un significato così consolante! Quando ci diamo da fare, ma ci sembra di non venirne a capo; quando ci agitiamo per molte cose e ci sembra di perdere tempo; quando moltiplichiamo gli sforzi, ma i risultati non si vedono: lo Spirito “viene in aiuto” alla nostra debolezza. «La preghiera cresce e si matura – fino a essere la sostanza più rimarchevole della santità – in proporzione del nostro “sapere” che la preghiera è un lasciarsi creare figli da Dio. Questo convincimento, se è matura, una volta che si sia tramutato in modo di vedere abituale in noi, perdura e si afferma, a dispetto delle distrazioni, o degli impacci ad esprimersi, e nelle cosiddette aridità, che sono poi solo espressione della nostra impotenza a trattare Dio come una «cosa» da manipolare. Uno è preghiera, più che non dica le preghiere. Lo si capisce, guardando il suo essere lì a ricevere, in attesa della chiamata, anche se, in anticamera, uno può tentare di leggere una rivista del mucchio di stampa sul tavolino, in realtà lui non perde mai la percezione di star aspettando; non dirà mai che lui, per prima cosa, sta leggendo. Legge per aspettare, dunque aspetta. Fuori di metafora: lui prega, e prega tanto quanto è maturata e profonda in lui la convenzione che Dio è lì a quel modo, e che lui, l’orante, è il privilegiato che Dio sta chiamando, perché ha qualcosa da dire e da fare a suo favore. Magnifica la preghiera di quiete, in cui non si ha nemmeno la forza di trascorrere sui pensieri, perché centrati e affascinati dalla certezza della Presenza. Ma è preghiera di quiete, non meno magnifica, anche se povera e tutt’altro che concentrata su un particolare edificante, quella preghiera che si esprime nella pacata e non concentratissima persuasione di essere, senza bisogno di credere che, per essere, occorra pensarci; perché non è al pensarci che noi siamo disponibili a Dio; lo siamo nient’altro che per il fatto di esserlo davvero, non sapendo fare altro» (Enzo Franchini). La comunione Una delle due «disposizioni» nelle quali si concretizzano «le esigenze dell’imitazione del Cuore di Gesù», secondo Statuto 7, è «l’amore che si fa “comunione”, che ci fonde nell’unità». Abbiamo speso parole per dire della comunione con Dio, una comunione sostanziale, perseverante, frutto e radice della nostra preghiera e del nostro agire. Nell’esperienza della comunione non può essere disgiunta dalla comunione tra “fratelli e sorelle” (familiares). «Fare “comunione” con i fratelli significa “perdersi” per ritrovarsi nel Cuore di Cristo e farsi con lui ascolto, disponibilità, dolcezza, rispetto, accoglienza, forza unitiva ... con tutti» (Statuto 11). Anzitutto il testo dell’evangelista Giovanni (cap. 17), nella solenne e drammatica cornice del Getsemani. Gesù sta per consegnarsi alla volontà del Padre, ma prima si rivolge dicendo al Padre che «vuole» alcune cose per i suoi. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. 22E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. 23Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. 24Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Il rischio è quello di fermarsi a una lettura ecumenica della preghiera di Gesù o, appena più su, a una lettura etica. Come se Gesù pregasse perché «si vada d’accordo», non si litighi, si faccia i buoni. E invece la lettura più adeguata è teologica: non è solo il condominio, o la famiglia, o la Chiesa ad andarci di mezzo. In gioco c’è Dio stesso, perché lui stesso si è messo in gioco nella nostra unità. Tanto da considerarsi perso, annichilito se la sua unità non potesse rispecchiarsi – ancorché in maniera confusa, come in uno specchio appunto – nella nostra. L’Unità trinitaria, anche a voler parlare di lui solo dogmaticamente, è l’intima essenza di Dio. Tanto che il suo antagonista – al quale è ancora possibile agire in questo mondo – è chiamato «dià-bolon», colui che è diviso e divide. E la sua azione nel mondo per contrastare il Regno non è sollecitare i nostri appetiti più pruriginosi, ma istigarci alla divisione, alla competizione, alla rivalità fra noi, perché sa che là dove si rompe la comunione fa gli uomini si minaccia Dio stesso nella sua unità, in ciò che lui intimamente è. I colpi sono mortali – quei peccati sono mortali. (Si potrà eventualmente comprendere da qui perché una destinazione impropria della ricchezza sessuale sia sempre stata vista come una minaccia grave, mortale in alcuni casi: perché ciò che contiene la vocazione alla comunione viene speso per isolare, dominare o dividere). Costruire comunione fra di noi è dar modo a Dio di vivere. Anche la comunione, come la preghiera, è realtà quotidiana, che se non è fatta della nostra carne – debole eppure abitata da Dio – non è “cristiana”. Gen 2,18.21-25: 18E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo ». 21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. 22Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». 24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. 25Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.26 I due saranno un’unica carne. Il Sint unum è all’origine della Chiesa, ma è anche, anche perché, all’origine dell’umanità. Il giudizio di Dio sul suo creato è duplice: «Non è bene che l’uomo sia solo (monon)», e il rimedio che salva è che «i due siano un’unica carne», che siano uno. Dio ha plasmato per Adamo, in Eva, «un aiuto che gli corrisponda». Così come Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Il Sint unum è ciò che porta, custodisce, trasmette la vita nel mondo. Dio si è dato nella coppia umana un aiuto nella sua opera di creatore. Ancora una volta non è un comando dato da Dio, dato da chi fa le regole ma non gioca. Dio, nell’unità fra l’uomo e la donna, si gioca non solo la sua immagine, ma se stesso. La sua carne... Perché Cristo è osso delle nostre ossa, carne della nostra carne. Ha preso carne da Maria, nuova Eva, e noi siamo nati dal suo costato, carne della sua carne. Quella sponsale non è soltanto un’immagine affascinante, è realtà costosa per Dio, e promettente per noi. Cristo ha lasciato suo Padre e si è unito per sempre a noi, sua Chiesa, diventando con noi una sola carne. Ora la sua stessa esistenza è legata alla nostra. La sua felicità è ancorata alla nostra. «Non è lecito all’uomo separare ciò che Dio ha unito». È di più del divieto opposto al divorzio, molto di più. È la linea di separazione tra il bene e il male. Dovrebbe esserci chiaro che una dinamica contraria a quella del Sint unum è diabolica, disfa la creazione. Il Sint unum, letto nel giardino dell’Eden, è il progetto di dare carne a Dio. Dargli un aiuto che “gli corrisponda”, perché non è bene che Dio sia solo. Il Sint unum è dunque molto di più di una pia esortazione spirituale o di un invito ecumenico. Non è un semplice consiglio dato da uno esterno alle nostre vicende, nel nostro interesse. È una vocazione alla comunione con Dio, è anzi una invocazione scaturita dalla bocca del Creatore mentre chiamava all’esistenza i suoi figli; scaturita dal cuore di quel Figlio di Dio che stava per unirsi ai suoi fratelli, su quel letto di croce, per essere con loro una sola carne, nell’esperienza più carnale di tutte: la morte. Nella teologia (discorso su Dio) del matrimonio, si è sempre individuato nell’intimità degli sposi – che è l’esperienza più eloquente dell’abbraccio divino per il quale noi siamo una cosa sola, una carne sola con lui – una finalità unitiva e una finalità procreativa. Analogamente, anche il Sint unum, nella sua dimensione sponsale, genera (nel senso che prende vita qualcosa che altrimenti non c’era) la comunione tra noi, membri dell’unica carne di Dio e, in questa comunione, ci rende capaci di «dare la vita». Poiché non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri fratelli. Sono i gesti della comunione fraterna (il perdono, l’aiuto, la pazienza, l’ascolto...) e della quotidianità sponsale quelli che danno vita al fratello e anche a me. Lo Statuto, al n. 41, riprende la citazione di Gv 17,21 [la citazione non è letterale]: «I Familiares sono raccolti in Gruppi, in ragione della loro dislocazione geografica. Questo motivo di carattere pratico si eleva, nella fede, a collaborazione all’azione salvifica di Cristo: Padre, ti prego, che essi siano “uno” come noi siamo “uno” ... Così il mondo crederà che tu mi hai mandato” (cf. Gv 17,21)». Una volta di più, ciò che è ordinario, “banalmente” logistico, nella fede assume un significato sacramentale. Nella comunione quotidiana – sponsale per chi è sposato, amicale per chi è amico, sollecita per chi dedica la propria vita alla cura di qualcuno – prende “corpo”, “storia” la comunione che è in Dio e alla quale tutti siamo chiamati, perché la sua gioia sia piena e sia in noi. La missione Nei riscontri alla IV scheda, un altro dei punti di convergenza – in sintonia piena con lo Statuto – è la missione, letta soprattutto, oggi, come “annuncio”. Attingo all’icona di Emmaus, che si presta a diversi registri di lettura, non ultimo il contesto “domestico” e familiare (qualche esegeta azzarda perfino che i due di Emmaus fossero una coppia uomo/donna) nel quale avviene il riconoscimento del risorto. I passaggi essenziali: » i due sono in viaggio delusi » uno sconosciuto li avvicina e li interroga » i cuori si scaldano alla “lettura” della parola di Dio » lo sconosciuto fa «come se dovesse andare oltre» » il riconoscimento allo spezzare del pane » nel momento del riconoscimento si sottrae alla vista » la conferma della risurrezione alla comunità dubbiosa e intimorita Leggendo questo episodio parabolico come modello di catechesi, siamo soliti identificarci con Gesù, la sua lectio e la sua pedagogia. Proviamo a identificarci invece con i due di Emmaus. Siamo testimoni e missionari non perché “ne sappiamo più degli altri”, ma perché ne condividiamo la vita, le frustrazioni, le delusioni anche da parte di Colui nel quale avevamo posto le nostre speranze. Siamo testimoni perché nel cammino della vita sperimentiamo la forza di gravità che ci porta lontano dalla Passione di Gesù, lontano dalla vita della comunità, per vivere le nostre case, le nostre città-Emmaus al chiuso delle nostre esperienze chiuse. E però, vivendo queste stesse tentazioni, ci lasciamo interpellare da chi ci aiuta a leggere l’accaduto con occhi di speranza. Anzi ne abbiamo bisogno. Siamo testimoni perché abbiamo imparato un dialogo sincero (nella preghiera) con chi non sa niente di noi e ha bisogno di sentirsi raccontare il nostro sconcerto e la nostra amarezza mortificante. Siamo testimoni di colui che ci ha scaldato i cuori e poi ha fatto come se dovesse andare oltre, ma la genuinità della nostra invocazione è riuscita a trattenerlo. Siamo testimoni di un riconoscimento avvenuto allo spezzare del pane, primo istante di un riconoscimento che si ripeterà nella fede, non negli occhi. Siamo testimoni perché, benché sia tardi, sia l’ora del riposo, sia buio intorno, noi facciamo il cammino a ritroso per andare a portare l’annuncio incontenibile agli altri. Prima era giorno fuori e buio dentro, ora è buio fuori ma dentro c’è la luce. Siamo testimoni, perché viviamo le nostre giornate in questa spola senza fine tra la delusione e la speranza ritrovata, perché siamo sempre in cammino tra Gerusalemme ed Emmaus e tra Emmaus e Gerusalemme.
parola incarnata
 
La meditazione della Parola di Dio fa parte dell’impegno quotidiano di preghiera dei membri della Compagnia Missionaria del Sacro Cuore. Gesù avverte, nei Vangeli: “Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più” (Mc 4,24), quindi occorre ascoltare con cuore aperto, ampio, grande; e ancora dice: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene” (Mc 7,14). Non si tratta di una semplice lettura, ma di un ascolto che fa ardere il cuore e motiva la vita, esperienza vissuta dai discepoli delusi e arrabbiati che incontrano il Risorto sulla via di Emmaus. “La Parola di Dio si è fatta carne e ha posto la sua dimora tra noi” afferma il Vangelo di Giovanni (1,14). Il Concilio Vaticano II, nella costituzione Dei Verbum afferma che Dio “mandò suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio” (DV 4) e questa “Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi”(DV 2). Insomma non solo le parole di Gesù sono Parola di Dio, ma tutta la sua vita. Gesù di Nazaret è, appunto, la Parola di Dio per l’umanità. Ed egli stesso, in più occasioni, fa riferimento a vari libri dell’Antico Testamento, dicendo che parlano di lui e che in lui arriva a compimento tutto ciò che è annunciato nelle Scritture. Inoltre, dopo la Risurrezione, Gesù incarica i discepoli di portare l’annuncio della salvezza – la Parola di Dio - a tutte le creature. È ciò che uomini e donne, discepoli del Risorto, fanno dopo la pentecoste. Questo annuncio e la vita che ad esso si conforma e la progressiva comprensione che ne ha la comunità dei credenti sono la Parola di Dio che ci è comunicata nei Vangeli e negli altri libri del Nuovo Testamento. Cristo maestro pantocrator, Duomo di Cefalù Gli stessi Vangeli non sono la registrazione perfetta delle parole e della vita di Gesù. Sono l’annuncio dell’esperienza vissuta dai discepoli, l’annuncio di ciò che essi hanno compreso alla luce della Risurrezione, sotto l’azione illuminante e sapiente dello Spirito ricevuto a pentecoste. Ma dalla lettura attenta dei Vangeli scopriamo anche che non sono stati redatti – così come li abbiamo - dagli autori a cui sono attribuiti, ma piuttosto dalle comunità cristiane che hanno ascoltato, vissuto e compreso l’annuncio degli apostoli; comunità che a quegli evangelizzatori facevano riferimento. Questo significa che le parole della Sacra Scrittura non si identificano letteralmente con la Parola di Dio, ma la Parola di Dio è contenuta, come nascosta, nelle parole umane. Si tratta sempre del mistero dell’incarnazione. Il Verbo di Dio si è umiliato, svuotato, spogliato, impoverito assumendo il limite, la fragilità, la povertà della carne umana nel seno di Maria, ma anche rivelandosi nella povertà e fragilità e limitatezza delle parole umane. Come l’incarnazione del Verbo nel seno di Maria è opera dello Spirito Santo, così il rivelarsi del Verbo nelle parole umane è opera dello Spirito Santo. L’apostolo Paolo insegna che solo lo Spirito può farci riconoscere Gesù come il Signore (1Cor 12,3: “Nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l'azione dello Spirito Santo”) e solo lo Spirito può farci comprendere la Parola di Dio nelle parole umane della Scrittura (2Cor 3,5-6: “Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, il quale anche ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita”). Se lo Spirito è l’autore vero, che ha ispirato gli autori materiali, della Scrittura, solo lo Spirito può farci comprendere la Parola di Dio in essa contenuta. Ne consegue che ascoltare la Parola di Dio (da qualunque libro della Bibbia) · NON È sentire il racconto di fatti - a volte edificanti, altre volte incomprensibili o fiabeschi o addirittura scandalosi - accaduti molto tempo fa; · NON È ascoltare regole morali più o meno convincenti, ancora adatte ai nostri tempi o antiquate; · NON È ascoltare insegnamenti usciti dalla mente di Dio e quindi anche affascinanti, ma… “lui è Dio e la nostra realtà umana è un’altra cosa”; · NON È cercare di capire intellettualmente gli insegnamenti della Bibbia e poi, se li abbiamo capiti, sforzarci di applicarli alla vita… se non costa troppo; · NON È assolutizzare il significato letterale della Scrittura; · NON È intenderla o interpretarla secondo idee, gusti, emozioni, ideologie o finalità personali. La meditazione della Parola è, allora, non un esercizio intellettuale, ma esperienza di incontro e di comunione con il Signore vivente. È vera preghiera, opera dello Spirito, che va vissuta necessariamente in modo personale e comunitario, per accogliere ciò che la Parola dice alla comunità e alla persona. C’è una verità oggettiva eterna, immutabile, che la Parola rivela all’umanità di tutti i tempi. Ma c’è una luce che emana da quella Parola per guidare e dare forma alla vita della persona, nelle diverse circostanze, e alla vita delle comunità nel corso della storia. Gesù dice che la sua Parola non passerà. È Parola eterna, ma è vivente, quindi non è statica. Non è scritta su pietra morta, ma nei cuori abitati dallo Spirito, capace di illuminare sempre nuovamente la vita nei vari corsi della storia, nei cambiamenti delle culture. S. Gregorio Magno (sec. VI), monaco appassionato della Sacra Scrittura e poi papa, insegna che la Scrittura cresce con la comunità che la ascolta, la medita, la rumina, la comprende vivendola. Sì, non esiste una comprensione intellettuale della Scrittura e quindi un’applicazione obbediente. Solo vivendola, cioè nell’obbedienza, si comprende la Scrittura. E solo dall’ascolto comunitario, ecclesiale, può sgorgare un ascolto personale che può dare illuminazioni diverse ai credenti. La vita dei santi ne è la testimonianza. L’unica verità rivelata nella Scrittura si incarna e si manifesta in forme diverse nella vita di ciascuno. Dice ancora S. Paolo ai Corinzi (2Cor 3,3): “È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani”. Occorre, dunque, accogliere con fede la comprensione che oggi la Chiesa ha della Parola e che ci offre. È indispensabile alla vita di ciascuno la meditazione e la comprensione personale della Parola e la meditazione fatta in comunità, nei nostri gruppi e nei gruppi ecclesiali. È utile l’aiuto che ci può venire dagli studiosi della Sacra Scrittura. Certamente le comprensioni personali di questi studiosi devono incoraggiarci, aiutarci, spronarci allo studio per una comprensione personale, sempre nell’invocazione e nell’obbedienza allo Spirito, nel confronto con l’insegnamento della Chiesa. Sappiamo che nessuno di noi e nessun biblista o teologo ha la pienezza e l’esclusiva dello Spirito. Poiché la verità della Parola di Dio non si identifica con le parole della Scrittura e la Scrittura non può essere presa alla lettera, tanto meno si può prendere come “verità”, come “Parola di Dio” le varie comprensioni personali, nostre o dei vari studiosi. Credo che sia importante anche per noi, nell’ascolto e nell’annuncio della Parola, usare un accorgimento tipico dei maestri ebrei, che quando spiegano o insegnano la Scrittura dicono: “Se così si può dire…”. Perché, sempre secondo questi maestri, la povertà della Scrittura contiene la Parola viva di Dio e quindi ha… 70 significati… +1! Non possiamo mai assolutizzare un significato colto da una persona. Ci troveremmo nel fondamentalismo e nell’estremismo che rimproveriamo ad altri. Lo Spirito ci dia fame e sete della Parola e un cuore grande per amarla e comprenderla, ascoltandola. Sempre di nuovo.
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COMPAGNIA MISSIONARIA DEL SACRO CUORE
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